La svolta di Aung ritorna in politica nella “nuova” Birmania
A un anno dalla sua liberazione, la leader dell’opposizione birmana Aung San Suu Kyi sta per ridiscendere in campo. Dopo aver passato gran parte degli ultimi due decenni agli arresti, aver visto cancellare nel ’90 le elezioni vinte a maggioranza dalla sua Lega nazionale per la democrazia, sembra ormai certo che la Nobel per la Pace tornerà a far politica attiva come candidato al Parlamento. Il partito sarà «probabilmente» registrato di nuovo in veste legale – ha spiegato Nyan Win, portavoce della stessa Nld – e di conseguenza anche Daw (la signora) Aung San Suu Kyi «potrebbe partecipare alle prossime doppie elezioni».
La notizia, che sembra porre fine a decenni di segregazione e repressioni del regime, arriva alla vigilia di una riunione dei 106 membri del comitato centrale della Lega provenienti da 13 Stati e regioni, prevista per il prossimo 18 novembre a Rangoon. Sarà affidata a loro la decisione finale, anche se l’annuncio del portavoce lascia intuire che i giochi sono ormai fatti. Sebbene una parte della Lega, soprattutto i più giovani, spinga per attendere ulteriori conferme sulle buone intenzioni del nuovo presidente birmano Thein Sein, gli anziani sono orientati a maggioranza verso una svolta immediata.
Il grande ritorno, previsto entro i prossimi due-tre mesi, avverrà in chiave minore, perché si tratta di un voto supplementare per integrare 40 seggi dei due rami del Parlamento nazionale. Ma la decisione di candidarsi come deputato assume un valore storico senza precedenti, dopo che Aung si era rifiutata di far partecipare l’Nld al voto dello scorso anno.
Dato per scontato il parere favorevole del Comitato centrale, la leader si presenterà quasi certamente in una circoscrizione della ex capitale Rangoon, da cui si è raramente mossa in quest’ultimo anno di libertà . Ma non c’è ancora una data prefissata. La decisione giunge dopo una serie di segnali di apertura lanciati dall’ex regime militare, che ha fatto eleggere nel novembre del 2010 molti ex generali per fargli formare un nuovo governo “civile”. Uno di questi è il presidente Sein, protagonista della svolta di queste settimane. È lui l’autore del decreto legge che eliminava l’obbligo di giurare fedeltà alla Costituzione del 2008. E sempre lui ha ordinato l’alleggerimento della censura per stampa e Internet, la nomina di una Commissione per i diritti umani, lo stop a una pericolosa diga già commissionata ai cinesi, e la liberazione di 200 dei 2000 prigionieri politici ancora in cella.
«Stiamo cominciando a vedere l’inizio di un cambiamento», ha detto Aung San Suu Kyi poco dopo aver cenato privatamente con Thein Sein nell’agosto scorso. Durante quella cena – dicono i ben informati – i prodromi della svolta hanno preso forma, anche se gli interessi in ballo potrebbero riservare sorprese per chi si illude che i membri del vecchio regime siano completamente fuori gioco, a cominciare dal generalissimo Than Shwe, formalmente pensionato. Le sanzioni internazionali contro la Birmania non sono state ancora alleggerite, e la stessa Aung San Suu Kyi ha detto di aspettare che i tempi siano maturi per appoggiare una decisione dalle conseguenze ancora inimmaginabili nello scacchiere asiatico e mondiale. Una delle condizioni per avviare la fase ufficiale dello “sdoganamento” del regime, è infatti il rilascio di tutti i prigionieri politici, e non solo una minima parte com’è avvenuto poche settimane fa.
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