La mafia vista dai bambini

by Sergio Segio | 12 Novembre 2011 7:32

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Una vasta raccolta di lettere di adolescenti, che provano a definire la mafia e la pensano con intensità . È il bel libro pubblicato dal giudice Nicola Gratteri e da Antonio Nicaso, esperto di ‘ndrangheta (La mafia fa schifo, Mondadori). C’è di tutto, in questi testi brevi che non di rado sono piccole parabole: lo sguardo lucidissimo e l’orrore, la speranza o la sconsolatezza, la denuncia e la paura. Ma c’è un filo, che li lega e dà  loro una singolare unità . Diversamente da come vien spesso raccontata la mafia, i ragazzi delle medie e dei licei che hanno risposto all’appello dei due autori non vedono nel fenomeno malavitoso una piovra lontana, indecifrabile. Anche quando scrivono «per fortuna non ho mai conosciuto un mafioso», «io sulla camorra non so molto», tutti lo sanno: la mafia è vicina. «Io ci vivo in mezzo ai mafiosi, sono il cittadino passivo della loro città  parallela alla nostra» (Marco, 17 anni, Palermo).
Nel Corano è detto che «Dio è più vicino all’uomo della sua carotide»: anche la mafia lo è. È addirittura dentro di noi, tanto normali e mimetici sono i suoi luogotenenti («Camorra: io penso che sia parte di me perché sono napoletana e tutti dicono che la camorra sta a Napoli», scrive Gloria, dodicenne. E Andrea, 16 anni, da Castellammare: «Abito in una cittadina dove tutto è un po’ ammiscato, come il caffellatte»). È una tentazione che abita chiunque non osi opporsi, minimizzi il male, ceda ai ricatti, disperato perché vede lo Stato o debole o complice. «E noi subiamo, in silenzio, come tante civette di giorno», chiosa Fabiola, 17 anni, da una città  preda della camorra. «Io penso che il problema principale siamo noi» (Gennaro, 16 anni, Napoli). Il problema sono le madri che tacciono nell’illusione di proteggere i figli, e son sempre lì a raccomandar silenzio: «A chi pensa troppo gli viene il mal di capa», ripete l’inquieta mamma napoletana a Simona, 13 anni. Il problema sono i compagni di scuola che la mafia trasforma in baby-spacciatori.
«La parola mafia non l’ho mai sentita nominare da nessuno», scrive Stella, prima media. Qui è il veleno. L’informazione latitante, il mutismo sul Nord ormai infiltrato come il Sud: le lettere ruotano attorno a tali morbi. E alla parola che va presa, perché parlare salva e «anche salire sui tetti e gridare». Sono indispensabili lo Stato, la polizia, i magistrati, ma più che mai pesano i singoli, i cittadini associati: il giorno che rompono l’incanto nero dell’omertà , la Liberazione comincia. Il silenzio uccide sul nascere ogni resistenza ed è il primo nutrimento di Mafia, Camorra, ‘ndrangheta, Sacra corona unita, Basilischi.
La parola è rimedio: in famiglia, ma soprattutto in classe. Nel libro la scuola è decisiva, prolunga la lotta di eroi cari agli adolescenti: Falcone, Borsellino, Libero Grassi, il giudice Scopelliti, Peppino Impastato, il parroco Diana. O Saviano, Don Ciotti, Gratteri, più volte citati. I maestri che spiegano la genesi della malavita, che consigliano ai ragazzi libri e film: per gli alunni sono pareti cui appoggiarsi. Maltrattati e vilipesi da Berlusconi («vogliono inculcare princìpi che sono il contrario di quelli dei genitori!», 16-4-11) gli insegnanti della scuola pubblica sono preziosi proprio perché contrariano i genitori. Due direttive del governo Prodi (2006, 2007) hanno istituito corsi di legalità . Così si diventa cittadini: osando sapere. «Sarebbe necessario educare i genitori prima dei figli», dice Valentina, 19 anni. E Silvia, 15 anni: «I miei genitori amano il quieto vivere. La mia generazione è diversa».
Non c’è quasi nessuno che non parli della paura, inculcata dalle mafie. Ma alcune lettere sfiorano vera sapienza, constatano Gratteri e Nicaso: «Spesso è il coraggio della paura a muovere le passioni di chi non si rassegna alle prevaricazioni». Marianna, 18 anni, calabrese, si chiede cosa spinga tanti giornalisti a indagare sulla mafia sfidando la morte: «Poi ho pensato che forse è stata proprio la paura a spingerli, la paura di vivere nell’illegalità  e sotto lo stretto controllo mafioso. Non c’è coraggio se non c’è paura». Vorrei ricordare loro che proprio questo accade nel più grandioso romanzo di paura e coraggio, Moby Dick. Starbuck, il vice del capitano Achab, ha un’audacia senza pari quando s’imbarca sulle lance per arpionare la balena bianca, ma nella sua saggezza sa i benefici pratici dello spavento: «Io non voglio nella lancia nessuno che non abbia paura della balena». Bisogna conoscere se stessi e insieme le risorse del mostro, per debellarlo.
Puoi vincerla o perderla, la battaglia. A volte ci credi a volte ti sconsoli, perché le mafie «sono come un animale che si arrimina [agita] nella pancia. Ti fanno stare male, anche quando non ti danneggiano personalmente» (Riccardo, 18 anni, Palermo). Ma battermi tocca, conclude Assunta, 16 anni, se voglio una Napoli bella e pulita: «Se non ora, presto».
Sono in tanti a usare la parola schifo, esplorando la mafia. È talmente grande la consapevolezza che il mondo sia in fin dei conti salvabile dai ragazzini, come in Elsa Morante: «Tutte le città  della terra sono un’unica maledetta congrega contro i ragazzetti celesti. E le fanciullezze sulla terra sono un passaggio di barbari divini col marchio carcerario della fine già  segnata». Come se più degli adulti, i ragazzetti sapessero l’essenziale: «Se tu entri nella mafia, vedi la morte alle tue spalle» (Giorgio, 1 media).

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