by Sergio Segio | 1 Novembre 2011 7:55
La tesi di fondo è che nel 2004, in un’Italia già orfana di Montedison, Ferruzzi e Olivetti e con una Pirelli ridimensionata, la Fiat non avesse più le risorse per giocare da sola. Quando Marchionne la prende in carico, la caduta è già consumata. «La Fiat novecentesca, quella di Giovanni Agnelli, votata al primato italiano e alla difesa delle radici torinesi, non esiste più», osserva Berta. «Del resto, la finanziaria di partecipazioni che la controlla, l’Exor, disloca i propri investimenti sulla scacchiera mondiale».
Perciò il primo capo internazionale della Fiat decide di sposarla con chi sarà possibile. Gli capita la minore delle Big Three di Detroit, salvata dal fallimento con i fondi statali. La Opel, corteggiata senza esborso, non si aggiunge. E i concessionari le daranno ragione.
Da storico di razza, Berta insaporisce la narrazione con una ricca aneddotica e un’analisi approfondita delle relazioni sindacali in America e in Italia, nelle fabbriche come in Confindustria. Senonché il libro entra in medias res a partire dalla lettera aperta a Marchionne, che il sottoscritto aveva pubblicato il 21 agosto sul «Corriere» partendo dall’assunto che oggi la Fiat conta meno di ieri per l’Italia, ma conta sempre tanto. Il conseguente invito a riqualificare l’impegno nel Paese d’origine, obietta Berta, è superato dalla storia che volge ormai oltre i confini e, comunque, andava rivolto all’azionista. In effetti, in tempi e aziende normali, è l’azionista ad assegnare gli obiettivi al dirigente. Ma il rapporto tra Marchionne e John Elkann è speciale. Marchionne gode di un potere che nemmeno Cesare Romiti ha mai avuto. E oggi la teoria dell’impresa come mero aggregato di azionisti non è più indiscutibile come prima della crisi. Per queste due ragioni, c’è chi ritiene che Marchionne debba risposte non solo agli azionisti, ma anche agli altri portatori di legittimi interessi verso il gruppo. La stessa Consob, per dire, ha avanzato domande impertinenti sul progetto Fabbrica Italia.
D’altra parte, c’è estero e estero. Negli anni 60, la Fiat possedeva Seat e Simca. Il Brasile è stato scoperto trent’anni fa. Oggi ci riprova con Chrysler. Ma mentre con Vittorio Valletta dominava in casa, era forte in Spagna e in Francia e ancora nel 1972 ai suoi operai bastavano 5 mesi di salario per acquistare una 500, nel 2011 la Fiat boccheggia in Italia e in Europa e i suoi operai devono spendere 8 mesi di salario per una Panda. E pure il mantra della concentrazione è opinabile se è vero che mezzo secolo fa Gm, Ford e Chrysler producevano la metà delle automobili nel mondo e nel 2010 Toyota, Volkswagen e Gm sono al 34%.
Nei giorni scorsi, Marchionne ha promesso la fusione Fiat-Chrysler entro il 2014 a coronamento dell’alleanza. Ci si può chiedere se nell’occasione passerà la mano, come lascia talvolta trasparire, ma ancor più ci si deve chiedere quale profilo economico e patrimoniale avrà questa nuova società , i cui due principali azionisti, gli Agnelli e il sindacato Uaw, non sono disposti a tirar fuori né un euro né un dollaro oltre a quelli già impegnati per evitare il peggio. La capacità di investimento e di ricerca, i conti parlano, è assai inferiore alla concorrenza. Anche perché gravata da debiti giudicati junk bond dalle agenzie di rating. Non a caso Fiat Chrysler deve tenere in cassa, per eventuali emergenze, il 40-43% della provvista fatta a debito contro il 25% della Volkswagen. E la liquidità costa. Di qui l’idea, rigettata da Marchionne, che la fusione debba avvenire tramite un aumento di capitale che riequilibri lo stato patrimoniale e consenta la ripresa vera degli investimenti.
La Fiat, dice Berta, non è più in sintonia con l’Italia. Ma anche l’Italia, che crede ancora nella Fiat come fonte di progresso tecnologico e industriale, fatica a sentirsi in sintonia con la Fiat se il suo vertice ritiene, peraltro legittimamente, di aver già rischiato abbastanza e il futuro, se va bene, potrà venire solo da Wall Street. O dai finanziamenti ecologici della Casa Bianca a tasso zero.
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