India Nel vortice del progresso

by Sergio Segio | 23 Novembre 2011 17:52

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L’autostrada che da Hyderabad porta al villaggio di Kothur era ancora disseminata di lavori in corso, con cavalcavia e svincoli in costruzione accanto alle corsie aperte al traffico. Vijay e io eravamo a metà  del nostro viaggio quando abbiamo visto apparire quell’uomo, in piedi in mezzo alla strada, che ci faceva segno con la mano. Andavamo veloci, troppo rapidamente per riuscire a capire chi fosse solo guardando il suo abbigliamento. Qualche giorno prima, sulla stessa strada, eravamo stati fermati da due poliziotti: assegnati alla sorveglianza di un altro tratto di autostrada, e senza un mezzo per raggiungerlo, ci avevano chiesto un passaggio. Ma la figura che ci si era parata davanti questa volta non portava una divisa e non era chiaro cosa volesse, anche se avevo l’impressione che facesse parte del groviglio caotico di auto e persone che all’improvviso avevano invaso l’autostrada.

Vijay ha fermato la sua minuscola auto, e l’uomo si è piazzato davanti al parabrezza: una figura scura e tarchiata in jeans e maglietta. Stringendo nella mano sinistra una pistola automatica con la canna rivolta verso l’alto, ha posato la mano destra sul cofano. Mentre scrutava attentamente i nostri volti, per qualche istante abbiamo incrociato il suo sguardo. Poi, di colpo, ha rivolto l’attenzione verso una motocicletta che arrivava alle nostre spalle. È andato a grandi passi verso la moto, puntando la pistola contro le due persone in sella.

In quel momento è apparso un poliziotto in divisa che ha bussato al nostro finestrino e ci ha chiesto di muoverci. Vijay si è allontanato lentamente, mentre tutti e due tenevamo gli occhi fissi sullo specchietto retrovisore per capire meglio cosa stesse succedendo. C’era l’uomo armato davanti alla motocicletta. Da un lato, accanto al poliziotto in divisa, c’era un’auto rossa: un modello economico di Maruti, adatto per un semplice funzionario pubblico o un dottore. Seduto al volante c’era un poliziotto con il berretto di ordinanza e il finestrino tirato giù. C’era anche qualcuno sul sedile posteriore, una sagoma nera dietro il finestrino oscurato. Abbandonata la motocicletta, ora l’uomo armato teneva sotto tiro un autobus che aveva appena fermato, mentre i passeggeri venivano fatti scendere e ammassati sulla strada.

Da tutto ciò si poteva arrivare alla seguente conclusione: quegli uomini stavano cercando qualcuno. L’uomo con la pistola non sapeva che faccia avesse questa persona. L’unico a saperlo era l’uomo invisibile nell’auto rossa, un informatore. Sapevano che doveva passare di lì, ma non con quale mezzo di trasporto viaggiasse. Ecco perché avevano fermato un’auto, una motocicletta e un autobus. Il fatto che insieme agli uomini in divisa ci fossero un uomo in borghese, un’auto civile anonima e una pistola – invece del fucile – stava a significare che non si trattava di un’operazione legale.

Ci eravamo appena imbattuti in una delle squadre della polizia specializzate in encounter, “incontri”: esecuzioni sommarie spacciate per scontri. Se il ricercato avesse avuto la sfortuna di imbattersi in quella squadra, probabilmente sarebbe stato assassinato a sangue freddo. Dopodiché un comunicato stampa avrebbe diffuso la notizia di un uomo rimasto ucciso nel corso di uno scontro a fuoco con la polizia, dopo aver sparato per primo.

I danni collaterali della crescita
Ho scoperto poi dai notiziari che la polizia stava effettivamente dando la caccia a un maoista che, per fortuna, quel giorno non si era visto. In quel momento, però, la scena ci era apparsa irreale, tanto da assumere quasi i contorni di un sogno, mentre ci allontanavamo. E in un certo senso quell’“incontro” era un sogno affiorato dalle regioni profonde del subconscio del paese, dove contadini suicidi, maoisti e lavoratori impoveriti finiscono risucchiati nel vortice dei danni collaterali del progresso. Poche settimane dopo, il primo ministro ha annunciato l’invio di decine di migliaia di truppe paramilitari per accerchiare i maoisti nel “corridoio rosso” che si sono ritagliati nelle foreste dell’India centrale. Eppure, nonostante fosse l’ennesima prova della guerra che l’India stava scatenando contro il suo stesso popolo, la notizia ha suscitato scarso interesse nelle grandi città .

La verità  è che l’India sta subendo una ricostruzione forzata, e che alcuni aspetti di quella ricostruzione sono più visibili di altri. Dopo aver lasciato il luogo del falso scontro, era quasi impossibile non abbandonarsi al piacere della nuova autostrada asfaltata di fresco, con il suo traffico scorrevole e le corsie divise e ordinate. Era come sorvolare, in aereo, il paesaggio circostante. E mentre guardavo dall’alto il mosaico irregolare di campi dove i contadini lavoravano senza sosta nel caldo torrido dell’estate, non ho potuto fare a meno di pensare a loro come persone abbandonate a un livello inferiore di esistenza.

L’autostrada era il futuro trascendente, con i suoi bordi diritti e gli spartitraffico traboccanti di fiori e siepi ornamentali, con i suoi cartelli segnaletici verdi e i tabelloni elettronici copiati dall’occidente.

I cartelli dicevano che stavamo andando verso sud, in direzione di Bangalore, e che seguendo l’autostrada avremmo potuto girare l’India in lungo e in largo. Quell’autostrada fa parte del Golden quadrilateral project, una striscia di modernità  a sei corsie che abbraccia tutto il paese, dove solo qualche piccolo contrattempo come un “incontro” poteva ricordarci quelli che restano indietro.

Vijay mi stava portando al villaggio di Kothur, nel distretto di Mahabubnagar, a una trentina di chilometri dalla città  di Hyderabad. Lungo la strada, il cambiamento in corso è visibile a occhio nudo. Poco prima di arrivare a Kothur, ci siamo fermati a mangiare qualcosa in un albergo, passando davanti a una guardia che sorvegliava i muri di cinta del complesso. Un tempo lì c’erano vigneti che producevano uva da tavola, poi la terra è stata acquistata da un’immobiliare. Le vigne sono state distrutte e sostituite da due piramidi costruite al centro del Papyrus port o, come lo definiscono i depliant, “il primo resort egiziano in India”.

Le piramidi non sono molto larghe, forse una decina di metri, e sono di granito. Si chiamano Khafres e Khufus ma come tutti gli altri nomi propri che echeggiano nel complesso residenziale (“Prato di Iside”, “Prato di Osiride”, “Centro salute Prometeo liberato”), più che all’Egitto o alla Grecia fanno pensare a una Disneyland indiana. Ma nonostante tutti i soldi spesi per costruirlo e renderlo confortevole, il Papyrus port resta più un’idea che un luogo fisico, e le meraviglie promesse dal depliant sono molto lontane dalla realtà . Le fotografie mostrano una grande piscina, un’immensa sala conferenze, uno zoo, ristoranti con cucina multietnica e una lista di sport avventurosi, dal water zorb – qualsiasi cosa voglia dire – al commando net. In realtà  la piscina era piccola, il “Centro salute Prometeo liberato” una stanzetta con due tapis-roulant solitari, lo zoo una gabbia con qualche coniglio spelacchiato e, per il momento, i ristoranti con cucina multietnica di Khafres e Khufus erano in grado di servire solo piatti locali.

Ma c’era qualcos’altro, al di là  del divario tra immaginazione e realtà , che aumentava la cacofonia del Papyrus port: tranne una coppia seduta al ristorante e una famiglia che mangiava kebab sul prato, il posto era deserto. Quando Vijay l’aveva visitato un paio d’anni prima era pieno di persone. Ma quando ci siamo arrivati noi, nell’estate del 2009, in India c’erano meno soldi.

La crisi mondiale è arrivata fino a qui, e perfino la classe media e le élite abituate ai consumi della globalizzazione hanno cominciato a fare fatica. Le aziende informatiche reclutano sempre meno personale nelle facoltà  d’ingegneria. In tante altre imprese sono cominciati i licenziamenti.

Il boom edilizio che ha fatto sorgere condomini ovunque ha rallentato, e a Hyderabad i cartelloni pubblicitari offrono affitti gratuiti e sconti per convincere le persone a comprare gli appartamenti non ancora finiti. Quando un dipendente dell’albergo ci ha mostrato le suite dell’ala “Vita da faraone”, abbiamo scoperto che anche quelle erano vuote. Vijay pensava che avrei preferito fermarmi lì, ma io ho deciso che sarei stato molto meglio a casa sua, al villaggio. L’albergo era confortevole ma non riuscivo a immaginarmi lì la sera, da solo: io, il personale, un faraone della classe media protetto da guardie giurate e un reticolato elettrico a dividere la terra dalla sua gente.

L’area faceva parte del distretto di Mahabubnagar, e quel giorno brulicava di gente. Molti erano stranieri, figure itineranti arrivate da lontane regioni del nord come l’Uttar Pradesh, il Bihar e il Madhya Pradesh, e dalla porzione orientale dell’India che comprende il Bengala occidentale, l’Orissa e l’Assam. Vengono a Kothur per cercare lavoro in fabbrica, dopo una lunga serie di spostamenti in treno e in autobus.

L’acciaieria di Vinayak
Secondo i progetti degli anni ottanta quella doveva diventare una zona industriale. Una trasformazione testimoniata dal cambio di nome: da Patur, “vecchio villaggio”, a Kothur, “nuovo villaggio”. Il processo di industrializzazione era stato sostenuto da agevolazioni fiscali e sussidi governativi, perché Mahabubnagar era considerato uno dei distretti poveri e arretrati della regione del Telangana. Ci vivono caste inferiori che sbarcano il lunario lavorando la terra e i nomadi lambada, una comunità  così povera che spesso è costretta a vendere i suoi bambini a losche agenzie di adozione e a trafficanti di esseri umani.

Vent’anni dopo la prevista industrializzazione, circa un milione di persone, cioè due terzi della popolazione adulta del distretto di Mahabubnagar, deve emigrare in regioni lontane per trovare lavoro. I migranti finiscono a Bangalore o addirittura a Mumbai, dove spesso vengono impiegati come manovali nell’edilizia. In un recente rapporto sul lavoro dei migranti in India pubblicato dal Programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo (Undp), Priya Deshingkar e Shaheen Akhter hanno raccolto le testimonianza di alcuni lavoratori di Mahabubnagar e hanno scoperto che gli intermediari guadagnano in media 4.500 rupie (66 euro) a operaio, anche se l’operaio non prende più di 1.200 rupie (17,5 euro) al mese. I lavoratori – quasi tutti appartenenti a caste inferiori – spesso si indebitano chiedendo anticipi per pagarsi il viaggio e le spese iniziali. I loro figli sono regolarmente costretti a lavorare, le mogli violentate e gli stessi lavoratori sono spesso vittime di infortuni, visto che l’India ha il più alto tasso mondiale di incidenti sul lavoro nel settore dell’edilizia: 165 lavoratori infortunati su mille.

Mentre la popolazione di Mahabubnagar va a lavorare altrove, le fabbriche della zona attirano decine di migliaia di uomini da altre parti dell’India. È una situazione ideale per i datori di lavoro, perché i dipendenti sono troppo deboli e sradicati per organizzare proteste collettive contro le condizioni di lavoro o i salari. Vengono da regioni lontane, non sono utili ai politici locali a caccia di voti, che li ignorano, e sono emarginati dalla popolazione locale a causa della lingua e della cultura diverse.

A pochi chilometri dal Papyrus port, al di là  dell’autostrada, c’è l’acciaieria di Vinayak, uno degli infiniti e invisibili nodi della modernizzazione indiana. L’acciaieria attira lavoratori dalle zone rurali più remote, e produce materiali da costruzione che saranno usati in zone altrettanto lontane, magari da uomini e donne che vengono da Mahabubnagar. Per capire in cosa consiste il lavoro di chi fabbrica barre d’acciaio, ci sono entrato: gli spazi rimbombavano di rumori metallici, i piazzali esterni odoravano di fumo e di grasso, e il cielo era tagliato in sottili quadranti dagli scivoli per lo scarico, che di colpo si mettevano rumorosamente in moto. Ma solo quando sono arrivato al laminatoio, dove i lingotti d’acciaio vengono trasformati nel prodotto finale, le barre tmt, ho capito cosa succede davvero in un’acciaieria.

Era quello il cuore della fabbrica: un enorme capannone aperto ai lati, con un rumore assordante e un caldo insopportabile prodotto dagli altiforni che raggiungono 1.200 gradi centigradi. Gli uomini che intravedevo attraverso il fumo e il frastuono erano creature infernali, con le facce coperte di stracci per proteggersi dal calore, in un ambiente estremo dove tutto era così grande, così veloce e così caldo che li faceva inevitabilmente apparire piccolissimi. Sembravano loro la materia lavorata, anziché il contrario.

I cambiamenti introdotti in India negli ultimi vent’anni non hanno aiutato i poveri. Mentre è aumentato il numero di milionari e miliardari, e quello degli appartenenti alla classe media che aspirano a diventarlo, per i poveri la situazione è migliorata poco o per nulla, a seconda degli economisti e dei politici a cui si decide di credere. In ogni caso, i dati raccolti dal governo indiano, criticato per la sua tendenza a ridimensionare il numero dei poveri e il loro stato di indigenza, parlano chiaro: tra il 2004 e il 2005, il periodo a cui risalgono gli ultimi dati disponibili, gli indiani che vivevano con meno di 20 rupie al giorno (30 centesimi di euro) erano 836 milioni, cioè il 77 per cento della popolazione. Sono persone che lavorano prevalentemente in quel settore dell’economia che i politici definiscono “non organizzato” o “informale”: in altre parole, fanno un lavoro irregolare, in condizioni difficili e senza garanzie o prospettive di mobilità  verticale.

In gran parte sono agricoltori, ma ci sono anche molti lavoratori migranti, persone che fanno avanti e indietro tra le zone rurali dove sono cresciute e le città  o le aree semiurbane come Mahabubnagar dove lavorano. Un rapporto del 2009 del governo indiano sulla cosiddetta economia “informale” ha definito il lavoro migrante, insieme a quello minorile e alla servitù per debito, il livello occupazionale più basso del settore. Quasi tutti i lavoratori migranti, si legge nel rapporto, sopportano “orari di lavoro più lunghi, condizioni di isolamento sociale, salari più bassi e accesso inadeguato ai servizi di base”. Vivono in baraccopoli, devono essere pronti a lavorare 24 ore su 24 e non hanno diritto alle tessere annonarie che gli consentirebbero di comprare generi alimentari a prezzi ridotti su quello che resta della rete di distribuzione pubblica.

Se ne stanno stipati in tende montate sui marciapiedi e sotto i cavalcavia di New Delhi; seduti con le loro borse di attrezzi nei mercati di Calcutta, dove aspettano di essere reclutati per una giornata di lavoro; raccolti intorno a falò di stracci e giornali nella città  di Imphal, al confine con la Birmania, e nelle stazioni ferroviarie, dove cercano di trovare posto negli scompartimenti “non riservati”, dove gli esseri umani sono ammassati come animali nei carri bestiame diretti al mattatoio. Sono dappertutto eppure sono invisibili, perché a quanto pare non contano nulla.

Migranti circolari
È difficile anche solo fare una stima del numero dei lavoratori migranti in India. Secondo il censimento del 2001 erano 307 milioni, il 30 per cento della popolazione totale. Il censimento registrava semplicemente le persone che si erano trasferite dal loro luogo di residenza, e non le ragioni del trasferimento. Secondo gli autori del rapporto sul lavoro migrante dell’Undp, invece, in India ci sarebbero circa cento milioni di lavoratori migranti “circolari”: quaranta milioni lavorano nell’edilizia e venti milioni, soprattutto donne e bambine, sono impiegati come domestici. I ricercatori dell’Undp hanno scoperto che il lavoro migrante è spesso un modo per mantenere il livello minimo di sussistenza delle famiglie contadine, anziché migliorarlo. Hanno anche scoperto che spesso gli intermediari vincolano i lavoratori con prestiti ad alto tasso d’interesse, salari bassi e condizioni di lavoro impossibili, come la pratica della servitù di intere famiglie indebitate, diffusa soprattutto tra i dieci milioni di lavoratori impiegati in piccole fabbriche di mattoni.

Qualche anno fa, a New Delhi, avevo incontrato un uomo che lavorava per un sindacato che cercava faticosamente di organizzare i lavoratori migranti. Tra le altre cose, mi aveva parlato di una sottoclasse di lavoratori migranti così poveri e disperati che spesso i proprietari della fabbrica li usano come crumiri durante gli scioperi. Il sindacalista li chiamava “lavoratori di Malda”, dal nome di una città  del Bengala occidentale. “Se chiedi a uno qualsiasi di loro da dove viene, ti risponderà  â€˜da Malda’. È possibile che una città  piccola come Malda abbia così tanti abitanti?”. Mi aveva spiegato che quegli uomini vengono dal Bangladesh, a pochi chilometri da Malda.

Sono musulmani entrati illegalmente in India, senza diritti e spesso disposti a lavorare per una miseria. Una volta era andato nelle baracche di alcuni di loro, perché aveva saputo che erano stati reclutati come crumiri in una fabbrica dove il suo sindacato aveva indetto uno sciopero. “Abbiamo portato cibo e alcolici da quattro soldi, e li abbiamo fatti sbronzare perché non potessero andare a lavorare il giorno dopo. Doveva essere parecchio tempo che non vedevano tanta roba da mangiare e da bere”, ha osservato il sindacalista. Non sarà  stata una cosa eticamente molto corretta, ha ammesso, ma non c’era altro modo per cercare di sindacalizzare i lavoratori migranti.

Per quelli che arrivano a Kothur e trovano lavoro all’acciaieria di Vinayak, la fabbrica diventa tutto il loro mondo, un posto dove fanno turni di dodici ore, giorno e notte, dove mangiano, dormono e cacano. Quando non sono in un’officina o in un capannone per il carico, li trovi nei dormitori ammassati tra un magazzino di carbone e le mura sul retro dello stabilimento. Quando l’ho visitata, la fabbrica non faceva pagare l’affitto, e il migliaio di uomini della sua forza lavoro era per lo più concentrato in due file di box di cemento ricoperti da tettoie di amianto. Visto che si trovavano nell’angolo più lontano dello stabilimento, era possibile girare tutto l’impianto senza entrare in quella zona, dove praticamente non metteva mai piede nessuno, tranne i suoi occupanti. E c’erano degli ottimi motivi per evitarla: era il posto più misero e squallido che avessi mai visto, anche più della peggiore baraccopoli.

Le due file di box erano separate da una piccola striscia di cemento con canali di scolo da entrambe le parti. C’era spazzatura ovunque nello stretto corridoio tra le due file di costruzioni, e perfino le verande davanti alle stanze erano piene di carcasse di oggetti: sedie e ventilatori rotti, indumenti vecchi, bucce di ortaggi, avanzi di cibo e bottiglie vuote di liquore scadente. C’era sempre una gran puzza di escrementi nell’aria, e tutta quell’area sembrava avvolta in un’infinita gamma di grigi.

Differenza di classe
Il senso di repulsione che ho provato quando ci sono entrato per la prima volta è stato accentuato dal rifiuto dei lavoratori di parlare con me. Venkatesh Rao, il direttore della fabbrica, mi aveva dato piena libertà  di intervistarli. Una decisione insolita da parte sua, data la feroce determinazione con cui i proprietari delle fabbriche si oppongono di solito a una visita ai loro impianti. Ma Rao non era un proprietario: era un dipendente, anche se molto ben pagato. E pur ammettendo onestamente che non sarebbe mai riuscito a migliorare le condizioni di vita degli operai – i proprietari non lo avrebbero permesso, aveva detto – si rendeva conto dello stato in cui vivevano.

Ho apprezzato quella libertà , quando mi è stata concessa. Mi è piaciuta un po’ meno il primo pomeriggio che sono arrivato al dormitorio e ho scoperto che nessuno degli operai voleva aprire bocca. Poi ho capito perché erano così sulla difensiva con me. Anche se avevo spiegato di avere il permesso del direttore generale, non sapevano come considerare la mia presenza: temevano che potessi essere un ispettore venuto a verificare le loro condizioni di lavoro, e come tutti i lavoratori migranti avevano paura di perdere il posto. Alcuni erano adolescenti, in aperta violazione delle leggi contro il lavoro minorile, ed erano quelli più preoccupati di evitarmi: quando gli facevo qualche domanda rispondevano a monosillabi o sorridevano e se ne andavano.

Ma non c’era solo prudenza nel loro rifiuto di parlare con me. Io ero così ben nutrito e riposato, in confronto a loro, che sembravo un marziano. Incontravano uomini come me tutti i giorni, tra gli ingegneri e gli addetti all’amministrazione della fabbrica, ma la gerarchia e la divisione erano chiare in quegli incontri, e gli uomini della classe dirigente non sconfinavano mai nel loro spazio vitale. Questo era il loro territorio: le uniche persone di un’altra classe a entrarci erano gli intermediari senza scrupoli che fanno da ponte tra il mondo borghese e “perbene” dei dirigenti e quello duro e disperato della manodopera.

Mentre gli operai continuavano a evitarmi, me ne stavo seduto su una branda abbandonata a guardare gli uomini che nel caldo del pomeriggio se ne andavano in giro a torso nudo, con logori asciugamani a scacchi intorno alla vita, o in mutande. Avevano un’aria trasandata, i loro corpi sfiniti dal lavoro, senza un filo di grasso ma non muscolosi. Alcuni di loro si portavano dietro una pentola d’acqua andando a defecare dietro ai box. Altri accendevano piccole stufe per cucinarsi la cena. Non c’era niente di casalingo nella preparazione delle pietanze, né alcun piacere: gli uomini tagliavano le verdure meccanicamente, fumavano una sigaretta o un beedi e orinavano nella fogna. Nonostante il caldo e l’assenza di ventilatori, le porte dei box erano chiuse. Ma alcune delle stanze avevano la tv e ogni tanto, da una porta che si apriva e richiudeva rapidamente, arrivavano bagliori colorati e suoni, e all’interno intravedevo gruppetti di uomini accalcati intorno a un televisore che trasmetteva un film di Bollywood.

Ma se quel luogo sembrava seguire un suo ritmo lento e immutabile, ai margini si percepiva un flusso continuo di cose e persone. Mentre ero seduto lì, sono arrivati cinque lavoratori dell’Orissa che erano scesi dal treno quella mattina a Hyderabad e poi avevano preso un autobus per Kothur. Erano tutti ragazzi di tredici o quattordici anni, di corporatura esile, che trascinavano borsoni di tela: se non fosse stato per le facce più mature della loro età  e l’aria circospetta, potevano sembrare studenti che avevano marinato la scuola. Mi sono avvicinato, e quando gli ho chiesto da dove venissero mi hanno risposto titubanti, senza dirmi i loro nomi. Avevano già  lavorato all’acciaieria, ma ancora non sapevano a quale mansione sarebbero stati destinati questa volta. Poi si sono allontanati, diretti verso una camera che a quanto pare era libera.

Il gruppo di lavoratori più numeroso arrivava dall’Orissa e dal Bihar, anche se c’era chi veniva dal Bengala occidentale, dall’Uttar Pradesh, dal Madhya Pradesh e dall’Assam. Gli alloggi erano divisi per gruppi etnici, e io ero seduto più o meno sulla linea divisoria tra i box dei bihari e quelli degli oriya. Un certo Rabinder si stava preparando la cena poco lontano – gli operai cucinavano presto, tra le quattro e le cinque, così chi faceva il turno di notte poteva mangiare prima di prendere servizio – e ho provato a parlargli. Veniva dall’Orissa, aveva la pancia, i baffi e lo sguardo sfuggente. Mi ha detto che nel suo villaggio faceva il sarto e che sperava di mettere da parte abbastanza soldi per tornare a farlo.

Mentre parlavo con Rabinder un altro uomo è uscito da una stanza vicina e si è messo ad ascoltarci. Sembrava diverso dagli operai che avevo incontrato fino a quel momento. Tanto per cominciare aveva un’aria più pulita, meno spossata anche degli adolescenti che erano appena arrivati. Snello e muscoloso, in maglietta gialla e bermuda, aveva i tratti marcatamente mongoli, con gli zigomi pronunciati e gli occhi allungati. Gli ho chiesto di dove fosse e mi ha risposto che era venuto dall’Assam. Ho dimenticato quasi tutto l’assamese che sapevo, tranne quel poco che mi è bastato per chiedergli come si chiamasse. Il suo volto si è illuminato, e si è messo a parlare a raffica, sedendosi accanto a me e sorridendo, anche quando Rabinder ha arricciato le labbra e se n’è andato sogghignando. Si chiamava Mohanta Mising. Aveva ventun anni e lavorava in fabbrica da non più di un paio di settimane.

Lo straniero
Una quindicina di anni fa Kothur è stata divisa a metà  dall’autostrada. Il mercato e l’acciaieria da una parte, case e campi dall’altra. Vijay ha una casetta nel villaggio, un edificio rudimentale in cemento, pieno di ragnatele e scarafaggi, che ha costruito molti anni fa. Lui abita a Hyderabad, e io sono rimasto lì senza nessuno, tranne il custode e la sua famiglia che vivevano in una capanna separata, di fronte alla mia. La mattina era un posto gradevole, quasi bucolico, circondato da campi coltivati e affacciato sull’insediamento dei lambada. Le donne avevano un’aria risoluta e curata, camminavano sempre davanti ai mariti, con le loro gonne colorate e una gran quantità  di monili.

Metteva tristezza e anche un po’ paura attraversare l’autostrada per tornare a casa ogni sera. Se mi fossi fermato al Papyrus port e avessi noleggiato un’auto avrei potuto evitarlo, ma poi ho capito quante cose mi sarei perso. Camminare ha cambiato completamente il mio modo di vivere quell’esperienza. Il disagio di attraversare l’autostrada e il senso di fragilità  che provavo attraversando a piedi quel paesaggio, mi hanno avvicinato un po’ di più alla realtà  di quei lavoratori. Camminare mi ha fatto sentire come un insetto, perché mentre percorrevo lentamente la strada sterrata vedevo sfrecciare le auto e i camion sull’autostrada, sopra la mia testa. E questo mi faceva sentire smarrito, insignificante, inadatto al nuovo mondo che vedevo lassù.

Un pomeriggio, mentre tornavo dall’acciaieria camminando tra le pozzanghere, dovevo pisciare. C’era solo un’altra persona in vista, un uomo che veniva verso di me, ma ancora lontano. L’ho fatta contro un muro di mattoni, vergognandomi un po’. Ho sentito l’uomo avvicinarsi e mi aspettavo che passasse oltre – la visione di un uomo che piscia all’aperto è molto comune, in India – ma quando mi ha raggiunto si è fermato. Stava fermo alle mie spalle e all’inizio ho avuto paura che fosse il proprietario del muretto di mattoni che stavo annaffiando. Ma lui restava in silenzio, e io cominciavo a innervosirmi. Quando ho finito, mi sono girato e gli ho lanciato un’occhiataccia.

Lo straniero mi aspettava sorridente. A giudicare dal suo aspetto era un ragazzo che non mi sarei mai aspettato di incontrare in un luogo così degradato: sulla ventina, piuttosto bello, con i capelli e i baffi curati, indossava una polo color panna e dei pantaloni, e aveva i sandali ai piedi. Portava una borsa da ufficio marrone, buttata su una spalla.

“Mi scusi, signore”, ha chiesto educatamente, “da dove viene?”.
“Dall’acciaieria”, ho risposto spazientito. “E tu?”.
“Io sto cercando lavoro”, ha replicato indicando la borsa.

Siamo rimasti lì in piedi tra le pozzanghere e la polvere, mentre mi raccontava la sua storia tra i rumori delle auto che sfrecciavano sull’autostrada sopra di noi. Si chiamava Amit Mishra e veniva da Faizabad, nell’Uttar Pradesh. Lavorava in un’azienda in Gujarat ed era venuto a Hyderabad a trovare un parente. Non era molto soddisfatto del suo lavoro e della vita in Gujarat, e quando aveva saputo dal parente che nella zona di Kothur c’erano tante fabbriche, aveva deciso di girarle tutte e vedere se c’era un posto per lui. A me sembrava una storia un po’ campata per aria, e c’erano dei punti del suo racconto che non quadravano. Il Gujarat era molto lontano dall’Uttar Pradesh, ma anche dall’Andhra Pradesh. Lui ha sorriso e ha annuito, senza contraddirmi. Sembrava molto più interessato alle ragioni che avevano spinto me a venire lì, che non a parlare delle sue. Quando ha sentito che vivevo a New York, ha chiesto in modo quasi automatico – come fanno gli indiani più poveri – se potevo aiutarlo a emigrare negli Stati Uniti.

Io ho cambiato discorso e gli ho chiesto che programmi avesse per la giornata. Era arrivato a Kothur in autobus quella mattina, e voleva bussare a tutte le porte possibili, prima di tornare a Hyderabad la sera.

Era questa, allora, l’India reale, e quella del ceto medio. Nonostante il gran parlare di tecnologia e di internet, l’istruito e ben vestito Mishra cercava lavoro come avrebbe potuto farlo un uomo cinquant’anni fa: andando a piedi da una fabbrica all’altra, con la speranza che il suo aspetto curato lo aiutasse a ottenere un colloquio, e lasciando il suo curriculum a tutti, con poche speranze di essere richiamato. Mishra era un contabile, ma prima di aver fatto ragioneria aveva studiato storia. La sua testa era ancora piena dei libri che aveva letto e lì, in mezzo a quel pantano, voleva discutere con me del significato della parola democrazia. “Signore, lei ha mai sentito parlare di Amartya Sen?”, mi ha chiesto, riferendosi all’economista di Harvard, premio Nobel, famoso soprattutto per il suo lavoro sulla fame e la diseguaglianza. “Si ricorda cosa ha detto della fame? Che non deriva necessariamente dalla mancanza di cibo ma dal fatto che chi ha il potere sottrae quel cibo a chi non ce l’ha. In India è ancora così. Lo scriverà  questo nel suo libro?”.

Ho chiesto a Mishra se voleva venire al mercato a bere una tazza di tè, ma lui ha scosso la testa. Il sole cominciava a scendere all’orizzonte, e lui voleva presentare il maggior numero possibile di domande di lavoro prima di riprendere l’autobus per Hyderabad. Mi ha chiesto indicazioni per raggiungere l’acciaieria e se n’è andato, camminando sotto l’autostrada verso le ciminiere della fabbrica.

Traduzione di Diana Corsini.

Internazionale, numero 924, 18 novembre 2011

© 2011 Siddhartha Deb/Agenzia Santachiara

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