Il Senatur manda Calderoli a Arcore “Fatti da parte, Alfano al tuo posto”

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MILANO – Bossi si rifiuta di andare ad Arcore, e anche questo aiuta a capire il gelo sceso tra la Lega e Berlusconi. Ci manda Calderoli, nella veste di ambasciatore, incaricato di ribadire al premier quel che il Senatùr gli aveva già  chiesto, in privato, una decina di giorni fa: «Qui sta crollando tutto, fatti da parte». Stavolta c’è un corollario, Bossi indica il nome del successore: Angelino Alfano, il segretario di quel Pdl che, come ha già  spiegato Maroni la sera prima, «sta ormai esplodendo». Alfano presidente del Consiglio, magari con l’attuale ministro degli Interni come vice. Ma Berlusconi respinge l’invito, e in serata a Calderoli non rimane che smentire il fallimento della propria missione: «Sulla mia visita ad Arcore circolano notizie prive di fondamento».
La risposta del Cavaliere non viene affatto presa bene in via Bellerio, dove dalla tarda mattinata gli stati maggiori della Lega si riuniscono in una sorta di consiglio di guerra. Oltre a Bossi, ci sono i ministri Maroni e Calderoli, il capogruppo alla Camera Marco Reguzzoni, il viceministro Roberto Castelli e il governatore del Piemonte (alluvionato) Roberto Cota. Soffia un’aria grama, sul principale alleato. «Ma come? per tutta la notte e fino a poche ore fa Berlusconi sembrava convinto al passo indietro, e adesso invece ha cambiato idea: vuol dire che ha deciso di farsi sfiduciare in Parlamento, di andare allo scontro finale, ma così va solo a sbattere», è il refrain intonato dai leghisti. Il Capo scuote la testa, e tra una boccata di toscano e l’altra decide che a quel punto è inutile e dannoso andare di persona ad Arcore, dove il Cavaliere è riunito con i fedelissimi e i familiari (come in «un bunker», scrive oggi la Padania).
Basta Calderoli, e nell’indicare i motivi di questa scelta tra i leghisti ci si sbizzarrisce. C’è la versione soft: meglio non alimentare troppe aspettative in questa missione, i cui esiti sono dubbi, come diventa chiarissimo dopo la smentita delle dimissioni che Berlusconi consegna a Facebook. E quella più cattiva: l’Umberto è parecchio irritato dal «comportamento irrazionale» (copyright di un sindaco leghista) del premier, quindi con la sua assenza vuole marcare una netta presa di distanza. Insomma, come riferiscono in via Bellerio: «Ciò che dovevamo dire a Berlusconi l’abbiamo già  detto con grande chiarezza, ora dica lui quel che intende fare, e soprattutto ce lo faccia sapere».
Il premier non si è sottratto, il suo è un no grande come una casa alla richiesta di farsi da parte, di prendere atto – per dirla con Maroni – che con lui a Palazzo Chigi «la maggioranza non c’è più». Tra i corridoi di via Bellerio si fornisce anche quella che sarebbe la ratio legata all’indicazione di Alfano: con lui come premier la maggioranza uscita dalle elezioni del 2008 non verrebbe tradita, il segretario del Pdl, oltre a recuperare i “suoi” malpancisti, porterebbe in dote solo i voti dei finiani. Invece con Gianni Letta a Palazzo Chigi arriverebbe anche l’odiata Udc. E questo nonostante la precisazione che nel primo pomeriggio arriva da Casini: «Da parte nostra, nessuna valutazione sull’ipotesi di un governo presieduto da Letta».
E in questo quadro a dir poco confuso nella Lega c’è chi, soprattutto fra i maroniani, pensa che non tutti i mali vengano per nuocere. «Va bene, Berlusconi va a sbattere, ma sarebbe peggio se stesse lì ancora qualche settimana a farsi massacrare, e noi con lui», ragiona un parlamentare. All’orizzonte si intravede dunque quel governo tecnico, o istituzionale («se il premier si fa cacciare c’è solo questa ipotesi») contro il quale il Carroccio si prepara a «rigenerarsi dall’opposizione», tentando di recuperare i consensi perduti per colpa dell’abbraccio mortale col Cavaliere. I riflettori sono tutti puntati sul voto odierno per approvare il rendiconto dello Stato. Stamattina la Padania titola così, in modo un po’ attendista: «Oggi prove di ribaltone, il premier ha deciso di porre la fiducia alla lettera alla Bce, scosse interne al Pdl fra fuoriusciti e indecisi, c’è chi lavora al governo tecnico». Il paradosso è che pure nella Lega qualcuno quel governo lo vede come un toccasana. Anche se per mero interesse di bottega.


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