Il Senatur e Silvio, «condannati» a destini paralleli

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MILANO — «Speriamo che smetta di piovere». Umberto Bossi, sornione, lascia i giornalisti di Montecitorio con un occhio al cielo, un istante prima di incamminarsi verso Palazzo Chigi per il summit più amaro. Non l’ultimo, forse. Eppure, la sera è arrivata. E il crepuscolo di Silvio Berlusconi non potrà  che essere anche quello del leader padano. Non due parabole parallele, ma un destino unico, consustanziale. Simul stabunt, simul cadent è stato scritto tante volte. E i due leader, nei giorni belli, ci hanno sempre scherzato sopra. Bossi lo ha raccontato in cento comizi: «Lasceremo insieme. Io e Berlusconi ce lo siamo detti tante volte: quando vai in pensione tu, ci vado anch’io».
Perché quel sodalizio profondo tra i due, entrambi creatori di partiti — incarnazione di partiti — ha rappresentato davvero la cifra dell’ultimo decennio, l’imprevedibile materia umana che ha saldato un sodalizio politico non scontato. Con il paternalismo carismatico dell’uno che trovava corrispondenza punto a punto in quello dell’altro. Certo, negli ultimi mesi le cose erano cambiate. I summit ad Arcore – politicamente rilevanti assai più che non le riunioni di governo a Palazzo Chigi — si erano assai diradati, mentre gli appuntamenti a Palazzo Grazioli son sempre stati un’altra cosa: in fondo, hanno sempre avuto più il sapore del chiarimento dopo un dissidio, del passaggio necessario, che non quello della spensierata epifania di potere che era il colore delle serate brianzole. Per capire la natura del rapporto — e dell’ultima decade italiana — il racconto dei partecipanti ai lunedì di Arcore vale un’analisi politologica: a Villa San Martino si svolgevano non dense riunioni scandite dalla rassegna dei punti in agenda, ma cene ai limiti del goliardico contrassegnate dalla risata e dalla battuta, meglio se pecoreccia. «Delle questioni sul tavolo — racconta un partecipante frequente — di solito non si parlava neanche, a meno che diventassero spunto per altre battute». Poi, sul finire, quando qualcuno cominciava a sbirciare l’orologio e i mille uomini delle scorte cominciavano a sbuffare, Bossi e Berlusconi si appartavano per qualche minuto. Ed era tutto. La «quadra» arrivava. È stato il decennio del «Poi un accordo lo troviamo» e dell’«adesso ci parlo io».
Certo, nuvole ce ne sono state. Ed è inutile andare a riesumare la preistoria, i mesi della formazione del primo governo Berlusconi o, peggio, gli anni tra il 1996 e il 1999, quelli in cui la Padania martellava in prima pagina le sue 11 domande sotto al titolo «Berlusconi, sei un mafioso? Rispondi!».
Ma lo spartiacque vero ha una data precisa, il 25 aprile 2011. Quel giorno Berlusconi dà  il via libera all’escalation dell’impegno italiano in Libia. Bossi lo apprende dalle agenzie. «Sono incazzatissimo» ruggisce il capo leghista da Domodossola. Poco più tardi, il premier candida sé stesso al Comune di Milano. Nuova sfuriata di Bossi: «Se si perde, la colpa è di Berlusconi». Per giunta, nello stesso periodo, è lo stesso leader padano che deve cominciare a preoccuparsi di altre «incazzature»: quelle dei suoi militanti. Berlusconi, ormai, per i leghisti più fumanti è diventato il simbolo dell’imborghesimento della Lega, del movimento inflaccidito dai mille compromessi romani, a fronte di risultati che nessuno riesce a vedere. e non si tratta solo di quelli che si presentano a Pontida con corna e barbe verdi: i più arrabbiati sono i sindaci, fin lì rappresentati come il vero nerbo della Lega.
Ma se è vero che il voto di ieri segna una svolta nella parabola di Bossi e Berlusconi, è altrettanto vero che scolpisce nei fatti il nuovo leader. Ciò che Umberto Bossi ha detto nelle ultime 48 ore è quanto Roberto Maroni va ripetendo da mesi. Lo sfilacciarsi della coalizione, la necessità  di riprendere fiato dall’abbraccio mortale del Cavaliere, la distinzione tra Silvio Berlusconi (da abbandonare) e il Pdl (con cui ricostruire il nuovo centrodestra del ricambio generazionale) sono la linea politica «naturale» in cui si riconosce da tempo, al netto delle stucchevoli polemiche tra maroniani e cerchio magico, la stragrande maggioranza del movimento.
Marco Cremonesi


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