Il ritorno della Res Publica

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Perché mai essa non è scoppiata nel 2008, quando il governo ha salvato le banche d’investimento traballanti ma non le loro vittime? Perché non nel 2009, quando alle stesse banche d’investimento che avevano schiantato il sistema con i loro giochi sui derivati sono stati consegnati giganteschi bonus?
Perché non nella primavera del 2011, quando la Corte Suprema ha cassato i limiti sui contributi societari ai comitati di azione politica (che consentono alle corporations di inondare il processo elettorale) e ha sostanzialmente eliminato le class-action (ovvero la principale linea di difesa contro le frodi e gli abusi delle aziende? Perché non in un qualsiasi momento dell’ultimo decennio, mentre l’accesso di massa all’istruzione superiore crollava, le infrastrutture marcivano, il reddito reale della classe media precipitava, i costi della sanità  salivano alle stelle, e le multinazionali, le banche e i ricchi prosperavano?
Occupy Wall Street è un dono gemellare da un lato della Primavera araba, dall’altro del colossale fallimento della presidenza Obama, che non è riuscita a imporre un minimo freno alla deregulation neoliberista né a mettere un trattino di separazione fra Wall Street e Washington. Il primo fattore è stato evidentemente un detonatore, ma il secondo non va sottovalutato: se una sola delle promesse di Obama fosse stata realizzata – il rapido ritiro dalla guerra in Iraq, la chiusura di Guantanamo, lo stimolo alla ripresa economica con la creazione di posti di lavoro, l’abrogazione dei tagli fiscali di Bush, la stretta regolamentazione del capitale inanziario, l’allargamento dell’accesso a un’istruzione superiore abbordabile, il contenimento dei costi della sanità  – molti di coloro che oggi partecipano a Occupy Wall Street, specialmente i giovani, sarebbero rimasti fedeli al movimento politico-elettorale che li impegnò così intensamente solo tre anni fa.
Oltre agli effetti galvanizzanti della primavera araba e dell’autunno di Obama, ad alimentare il fuoco è stato un mezzo decennio di recessione, con una disoccupazione impressionante (25% tra i laureati recenti), il deterioramento dei salari, l’evanescenza delle pensioni, i pignoramenti delle case, i tassi scandalosi di povertà  (negli Usa un bambino su cinque nasce povero) e di persone senza fissa dimora, la distruzione accelerata di beni e servizi pubblici già  snelliti da due decenni di disinvestimenti e privatizzazioni neoliberisti. Tutti questi fattori hanno contribuito ad accomunare le situazioni dei poveri e della classe media, dei giovani e dei vecchi, dei lavoratori, dei disoccupati e dei sotto-occupati: tutti sacrificati mentre il capitale viene puntellato, salvato e continua a fare festa. In altre parole, ciò che rende unico questo momento è l’identificazione reciproca senza precedenti tra le famiglie dei lavoratori della classe media affogate dai mutui, i giovani disoccupati affogati dai prestiti per andare al college, gli operai licenziati dalle fabbriche colpiti dalla contrazione delle indennità  di disoccupazione, gli impiegati pubblici costretti a sobbarcarsi i contributi crescenti ai propri ‘benefits’ o a perdere le pensioni a lungo attese, i lavoratori qualificati e non qualificati – dagli insegnanti d’asilo ai piloti delle linee aeree – che con i loro stipendi full-time non riescono a risollevare dalla soglia di povertà  le loro famiglie.
Se il neoliberismo economico, eliminando benefici statali e beni pubblici e ingrassando i ricchi, ha finito con l’unire le sorti di generazioni, settori di lavoro, razze e classi finora diversi e spesso divisi, il neoliberalismo politico, volto a rompere le solidarietà  sociali, ha a sua volta finito con lo spianare la strada a una rivolta democratica con una larga base unificante. Gli ultimi anni hanno visto una pletora di atti giudiziari statali e federali che aggrediscono il potere organizzato dei sindacati, dei consumatori, dei destinatari del welfare, degli anziani, dei lavoratori del settore pubblico e dell’elettorato tutto. Dalla sentenza della Corte Suprema sul caso AT&T Mobility v. Concepion (che consente alle corporations di evitare le class action) a quella della Corte del Wisconsin sul caso State of Wisconsin v. Fitzgerald et al. (a favore di una legge statale che sventra il potere di contrattazione collettiva dei sindacati), l’ultimo decennio ha visto la ratifica e l’implementazione costante della formula di Margaret Thatcher che condensa l’ideale politico neoliberista, «la società  non esiste, esistono solo gli individui». Eppure, paradossalmente, o forse (per chi ci crede ancora) dialetticamente, questa stessa demolizione del potere dei gruppi di interesse organizzati – combinata con una crescita scandalosa delle disparità  di reddito, una ricchezza mirabolante al vertice della scala sociale e lo smantellamento dei beni pubblici – ha facilitato una nuova coscienza politica popolare, un populismo di segno nuovo. All’esito della distruzione delle solidarietà  tradizionali e dell’assalto alla democrazia, si è forgiato un nuovo ethos di massa: discretamente democratico, probabilmente anche più discretamente egualitario, ma certamente sagomato da qualcosa di più dell’interesse individuale, settoriale o di parte.
Occupy Wall Street è riuscito, lavorando sullo spirito, sull’analisi e sui comportamenti, a sostituire il discorso della giustizia a quello degli interessi. E lo ha fatto quando il linguaggio della giustizia sembrava ormai estinto da una razionalità  neoliberale che conforma tutti i comportamenti al metro dell’autovalorizzazione del capitale umano. Lo slogan «siamo il 99%», lungi dal basarsi sulla rappresentanza di interessi, rifiuta apertamente il sequestro della nazione da parte di una plutocrazia, pubblica o privata. E se a volte sembra intendere questo sequestro come un effetto della corruzione e dell’avidità , piuttosto che della razionalità  neoliberista del tardo capitalismo (compresa la completa imbricatura degli stati euro-atlantici nei destini e negli imperativi del capitale finanziario), questa è una conseguenza delle ricchezze estreme che l’epoca ha generato, nonché del bisogno di personalizzazione e teatralizzazione proprio di ogni discorso politico efficace (anche per i bolscevichi fu necessario dipingere lo zar come il nemico!).
Ma quanto difficile è stato per i media mainstream capire che il movimento è portatore di una visione della giustizia, e scaturisce da una convinzione politica e non solo da circostanze personali o dal rancore individuale! È un sintomo della profonda spoliticizzazione del nostro dialetto della cittadinanza il fatto che nelle interviste ai militanti Ows la domanda-tipo «che cosa ti porta qui?» punti sempre a sollecitare una storia di disagio o calamità  personale. E dalla Cnn al New York Times, gli intervistatori non sanno che fare delle risposte che si riferiscono alla dignità  di una vita collettiva equa e sostenibile, al senso di ciò che è giusto o sbagliato, a quello che siamo soliti definire «bene politico».
Infine, se OWS è stato una splendida sorpresa, altrettanto stupefacente è il livello del sostegno nazionale che ha conquistato: recenti sondaggi indicano che il 62% del paese lo sostiene e che più di un terzo dei super-ricchi (l’1%) simpatizzano. Indipendentemente dalle sfide strategiche che il movimento si trova davanti, questi fatti da soli illuminano le prospettive future di un discorso critico sulla democrazia e il capitalismo. Occupy Wall Street ha già  generato qualcosa di straordinario con la sua sfida riuscita all’immagine neoliberista della nazione modellata sull’impresa, dove il profitto è l’unico parametro, la concorrenza l’unico gioco, la proprietà  privata l’unica regola, vincitori e vinti l’unico risultato, la gerarchia l’unica forma di organizzazione. Al suo posto, OWS ha rilanciato l’immagine classica della nazione come res-publica. La prossima battaglia? Rendere questa immagine reale.
(University of California, Berkeley)


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