Il “bocconiano” europeista che punta sulla crescita
MARIO Monti era a Berlino ieri, quando lo ha raggiunto la chiamata di Giorgio Napolitano. Lo ha ringraziato, si è detto onorato. Poi ha fatto una di quelle cose che gli riescono alla perfezione: si è chiuso in un riserbo rigoroso.
Nella giornata di tutte le paure, mentre i mercati mondiali da Francoforte a Wall Street si avvitavano disperatamente al ribasso, risucchiati dalle incertezze sull’Italia, Monti si è comportato come se quella telefonata fosse “solo” per nominarlo senatore a vita. Al presidente lo lega un’antica familiarità europea (Napolitano fu europarlamentare dal 1999 al 2004, durante tutto il secondo mandato di Monti a Bruxelles) e i due hanno un’altra cosa in comune: forse sono i più “anglosassoni” tra i leader italiani, nel senso dell’aplomb, dello stile, della compostezza. Ora, se a Monti toccherà l’incarico di formare un nuovo governo, sarà finita davvero quella “commedia all’italiana” che lui stesso deprecava il 14 luglio scorso, così come la “tendenza ad andare alle calende greche”. Dalla prima tempesta estiva sui mercati, il linguaggio di Monti ha avuto una vera e propria escalation: perché la rete di contatti di altissimo livello che ha coltivato in Europa lo hanno convinto prima di tanti altri che il pericolo era “urgente e grave”. Fino all’appello lanciato il 23 settembre a Genova: «Bisogna attuare riforme impopolari mettendo insieme pro tempore le parti più sensibili di ciascuna parte politica». Un’autocandidatura? «Non partecipo al dibattito sui governi tecnici – si è schermito ancora pochi giorni fa – però credo che una certa conoscenza dei problemi non guasti». Ecco, sulla “conoscenza dei problemi” è difficile trovare in Italia un altro curriculum all’altezza del suo. Laureato alla Bocconi nel 1965, specializzato all’università di Yale studiando col Nobel dell’Economia James Tobin (sì, proprio quello della Tobin Tax sulle transazioni finanziarie), Monti si fa rispettare come giovane economista fin dal suo ritorno in Italia per la sua competenza su moneta, banche, finanza. Già nella prima parte della sua carriera colpisce il contrasto fra il carattere sobrio, la pacatezza dei modi, e il coraggio di prendere in contropelo i vizi nazionali: si guadagna la fama di “governatore ombra” della Banca d’Italia perché – a un’epoca in cui Via Nazionale è un’istituzione sacra e intoccabile (negli anni Settanta e Ottanta) – osa contestarne alcune politiche. Esempio: l’eccessiva acquiescenza alle nomine politiche ai vertici delle banche (allora di Stato); e una politica monetaria accomodante verso la spesa facile, all’origine del boom del debito. La stessa grinta, la stessa capacità di non guardare in faccia nessuno, Monti la sfodera a Bruxelles. Dove arriva e rimane grazie a un profilo tecnico al 100%, prima nominato dal governo Berlusconi (18 gennaio 1995) poi confermato dal governo D’Alema nella Commissione europea presieduta da Romano Prodi (dal 1999 al 2004). Come commissario, prima al mercato interno e poi alla concorrenza, Monti osa sfidare quello che all’epoca è “il potere forte” per eccellenza, nella New Economy: la Microsoft di Bill Gates, affrontata in una dura battaglia antitrust. Già allora Monti si fa carico anche del ruolo di “vigilante speciale” sull’Italia. Nella fase degli esami di Maastricht, quando non è affatto scontato che Helmut Kohl e la Bundesbank ci accettino nella nuova Unione monetaria, gli interventi di Monti frustano Roma perché raggiunga il traguardo. E al tempo stesso, giocando di sponda con Carlo Azeglio Ciampi, lui offre ai leader europei il volto di un Italia diversa. Credibile. Capace di mantenere gli impegni presi. La passione europea diventa per lui una sublimazione del patriottismo nazionale: «L’Europe puissance cara ai padri fondatori» è un’espressione che usa spesso. Anche per ricordare che nei trattati del 1957 voluti da Monnet, Schumann, Adenauer, c’era quella «economia sociale di mercato» che resta il suo faro, un modello più valido del neoliberismo nato negli Usa. E’ la componente “di sinistra” di Monti – uomo di centro che più di centro non si può – a fargli pronunciare parole che oggi piacerebbero agli “indignati”: «La pressione fiscale si è spostata sproporzionatamente sul reddito da lavoro e d’impresa, alleggerendosi invece sulle rendite finanziarie». Monti non esita a denunciare un “mercatismo” che sembra volere imporre ieri alla Grecia e alla Spagna, oggi all’Italia e domani alla Francia, aggiustamenti fatti solo di tagli e austerità . «Il problema è la crescita», ha ricordato di recente. Ma per poter parlare di crescita bisogna prima spegnere l’incendio da panico, ricostruire una fiducia distrutta da Berlusconi. Monti non ha simpatia per un direttorio franco-tedesco. Proprio perché ha mantenuto sempre incarichi di alto livello – la Commissione Attali a Parigi, il think tank Bruegel a Bruxelles, la Trilaterale, il Libro Bianco sul mercato unico per la Commissione Barroso – non soffre complessi d’inferiorità verso le eurocrazie. Sa però che ci siamo cacciati da soli alla periferia: con lo stallo delle riforme, e infine con la nuova tentazione dell’anti-europeismo da campagna elettorale. E’ scattato con decisione, non appena ha sentito un Berlusconi pronto a dare la colpa all’euro per la deriva dell’Italia. «L’euro non è in crisi. Ha bassa inflazione ed è stabile, perfino forte, verso il dollaro. Gli attacchi speculativi ci sono, ma non contro l’euro. Se l’Italia ne fosse fuori, emettere titoli italiani in lire sarebbe un’impresa ancora più ardua». Il consenso facile, non è il suo genere. Se ci sarà da «rendere un po’ infelice ogni italiano limando i privilegi» lui non si tirerà indietro. La missione, se arriverà , è risalire da un baratro: «L’Italia non è mai stata così decisiva sull’avvenire dell’Europa, e così estranea alle decisioni sull’avvenire dell’Europa».
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