Il Polesine, Firenze, Sarno quando l’acqua flagella l’Italia
Nel ‘51 in Polesine, le bestie intrappolate dall’onda scesero a valle solo quando l’acqua cominciò a defluire dalle stalle. Da quel momento il Po se le portò al mare gonfie, con le zampe all’aria. Migliaia, per giorni. A Genova e in Lunigiana, in queste ore, l’acqua marrone è scesa come una trivella a portar via uomini e cose nel giro di pochi minuti. Novembre 1951-novembre 2011: sessant’anni di disastri, e ogni volta l’ultimo evento della serie pare quello definitivo, irripetibile e irreversibile. Ma la fredda statistica dice che è dura chiamare eccezionali eventi che si sono ripetuti quasi duemila volte a partire dal 1900, al ritmo di venti disastri all’anno, con un totale di 2570 morti (senza contare il Vajont), 174 dispersi e un numero incalcolabile di feriti. «È il bilancio di una guerra non dichiarata», scrivono Emanuela Guidoboni, Antonio Navarra ed Enzo Boschino nel libro “La spirale del clima” sulla storia dei disastri nel Bel Paese.
Togli la frana del Vajont nel 1963 e quella di Stava nell’85 (oltre 2200 morti in totale), dove la manomissione dell’ambiente da parte dell’uomo fu agente unico e devastante, non c’è quasi alluvione che non sia ripetuta nello stesso luogo. Genova e i paesi a monte sono andati sott’acqua già nel 1970, quando 900 millimetri di pioggia andarono a imbottigliarsi tra il passo del Turchino e quello dei Giovi, e 44 persone furono portate via dal fango sul lato padano e su quello tirrenico. Il disastro di Firenze del 1966 è stato preceduto da qualcosa di altrettanto tremendo nel novembre del 1844, quando piovve due settimane di fila e assieme all’Arno collassarono in simultanea il Bisenzio, il Serchio, il Chiana, il Sieve e l’Ombrone pistoiese, con danni spaventosi, anche allora, nelle cantine degli Uffizi. La città di Palermo, prima di essere inondata nel 1931, era finita sott’acqua nel 1851, 1861, 1907 e 1925, quando le vie della Vucciria furono percorribili in barca.
E che dire di Sarno: il mare di fango che si portò via 160 persone nel maggio del 1998 aveva avuto decine di precedenti di maggiore o minore intensità , nei cent’anni prima della tragedia. I punti vulnerabili del territorio sono stati colpiti così tante volte da lasciare il segno nei nomi dei paesi o delle alture. «Quando dovevo intervenire su zone colpite da frane o alluvioni – ricorda l’ex capo della Protezione civile Guido Bertolaso – finivo sempre davanti a cartelli stradali ammonitori. Posti come Pozzallo, Acquamarcia, Fossa, Pietratagliata, Pozzonero, Acquapendente. Non mi vengano a dire che era un caso». Ripetitive fino alla monotonia anche le cause: piogge eccezionali che fanno detonare un innesco già preparato, l’incuria e la cementificazione del territorio. «Per favore non chiamatele catastrofi» taglia corto la Guidoboni, storica dei terremoti. «È un termine che deresponsabilizza gli uomini e scarica tutto sul destino».
Ricordare cosa è avvenuto dal 1900 a oggi non è solo curiosità storica: è un modo per tenere desta l’attenzione sul paesaggio e favorire la prevenzione. Ma la prevenzione è scomoda, perché non fa voti. Così si autorizza l’amnesia. Ed ecco che salvo casi eccezionali, l’alluvione non diventa memoria condivisa, come accade invece con la guerra. Alcune sono già scomparse dalla memoria. Quella del Polesine, per esempio, con i suoi 100 morti, i 160mila sfollati, i 113mila ettari di terreni allagati e i 52 ponti crollati, ha finito per cancellare il disastro calabrese avvenuto poche settimane prima. Eppure era stato un inferno: in soli quattro giorni erano piovuti 1770 millimetri d’acqua, più che nel resto dell’anno. Sessantasette comuni erano stati investiti da frane tra le Serre e l’Aspromonte, e il nubifragio s’era portato via 70 persone e 1700 abitazioni. Due anni dopo, più o meno nella stessa zona, l’evento si ripeté, con un centinaio di morti, di cui oggi più nessuno parla. Stessa rimozione per l’alluvione del Veneto del 1966, messa in secondo piano da quella, concomitante, di Firenze.
Trentasei morti a Messina nel 2009; sedici in Versilia nel ‘96; 53 in Valtellina nell’87: il bollettino del dopo-Polesine non salta quasi nessun anno del calendario e non risparmia nessuna zona d’Italia. Sul piano dei disastri siamo una nazione unita. «Il mutamento del clima ha un suo ruolo» spiega Elpidio Caroni, genovese, docente di sistemazione dei bacini idrici a Trieste, «ma mentre la mappa della pioggia è a pelle di leopardo, quella del consumo di territorio ha lo stesso colore dalle Alpi alla Sicilia. Il settanta per cento dei Comuni italiani sono a rischio. Nord, Centro, Sud, fa poca differenza. È questo il vero problema». Altro elemento ripetitivo in questo bollettino è la mancata lezione che se ne trae. «Ogni volta salta fuori la stessa parola magica: mettere in sicurezza i corsi d’acqua» ghigna Andrea Goltara, direttore del Centro italiano di riqualificazione fluviale, a Venezia. «Risultato: invece di dare aria al fiume, si fanno argini più alti, e così, con la nuova e illusoria sicurezza acquisita, si autorizzano peggiori devastazioni cementizie, che rendono il territorio ancora più a rischio. In sessant’anni abbiamo imparato poco o niente».
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