Il petrolio maledetto dell’Uganda

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Si tratta dell’Uganda, l’ultimo paese africano a entrare nella cerchia dei produttori: i primi giacimenti sono stati individuati nel 2006 nella zona di lago Albert da due società  di esplorazioni petrolifere, Heritage e Tullow Oil; oggi il ministero dell’energia stima che il paese abbia giacimenti totali per 2 miliardi di barili, abbastanza da mettere l’Uganda tra i piccoli produttori di rilievo. La produzione effettiva dovrebbe cominciare intorno al 2013. Ma, appunto, polemiche, proteste e accuse di corruzione sono già  arrivate. Il primo ministro Amama Mbabazi è stato accusato di aver intascato soldi per fare lobby a favore dell’Eni (per altro poi uscita dal gioco: l’azienda italiana era entrata in ballo nel 2009, quando ha speso 1,5 miliardi di dollari per comprare da Heritage la concessione su due grandi blocchi di esplorazione, e allora sembrava il segno che la fase della produzione commerciale era vicina). Poi anche il ministro degli esteri Sam Kutesa e quello degli interni, Hilary Onek, sono stati accusati di aver preso tangenti (da Tullow Oil), 23 e 8 milioni di dollari rispettivamente. Sia i ministri che l’azienda hanno respinto le accuse, ma in ottobre una infocata seduta del parlamento a Kampala ha chiesto le dimissioni dei due ministri e ha istituito una commissione parlamentare d’indagine su di loro (ora il ministro Kutesa si è fatto da parte). Tullow, che ha in concessione tre blocchi, ha rivenduto parte della sua concessione alla francese Total e alla cinese Cnooc – ma ora la vendita è bloccata dall’indagine parlamentare.
I sospetti di tangenti però sono parte di un problema più ampio di trasparenza. Durante quell’animato dibattito, i deputati di Kampala denunciavano che la nuova industria petrolifera è stata circondata dal segreto: solo lo scorso settembre il parlamento ha avuto visione degli accordi firmati dal governo con le compagnie petrolifere (i production sharing agreements, Psa), ed è stato l’esito di una battaglia cominciata addirittura nel dicembre 2009, quando gruppi di avvocati ambientalisti hanno presentato una petizione all’Alta corte in nome del diritto all’informazione. Anche così però il Procuratore generale Peter Nyombi Thembo ha detto che gli accordi contengono delle clausole confidenziali che vietano di rivelarne il contenuto. Così i furibondi parlamentari hanno approvato una risoluzione che vieta clausole confidenziali in ogni futuro contratto pretrolifero con aziende straniere. Per inciso, un fronte di gruppi ugandesi per la giustizia ambientale – la rete Oilwatch Uganda o gli avvocati ambientalisti di Greenwatch – contestano al governo di aver accettato contratti capestro: troppo basse le royalties per lo stato ugandese, accusano, e troppo compiacenti con le aziende le normative di sicurezza e ambientali. Oggi le stesse voci accusano: l’Uganda non ha varato nessun meccanismo istituzionale per garantire la trasparenza di quest’industria in cui circola tanto denaro, per includere le comunità  locali, mitigare l’impatto ambientale. O discute come gestire il reddito petrolifero che entrerà  nelle casse dello stato, in un paese dove il 51% della popolazione vive sotto la soglia di povertà  (è la stima del programma dell’Onu sullo sviluppo, Undp).
Per ora le comunità  locali – coltivatori, allevatori nomadi, pescatori – hanno solo visto gli svantaggi della nuova industria. Alcuni sono stati evacuati all’improvviso, hanno perso la possibilità  di pescare, coltivare, muovere le mandrie. I risarcimenti sono stati inadeguati. Vecchia storia: chi intascherà  i profitti, e chi pagherà  i prezzi?


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