Il leader esce di scena «Ma al Senato possiamo staccare ancora la spina»

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ROMA — Con piccoli movimenti del capo, ad assentire, quasi un tic, guarda i suoi deputati che gli dedicano una standing ovation e sembra sollevato, c’è ancora qualcuno che gli vuole bene, che lo applaude, che intona cori per lui. È un attimo, a Montecitorio, nel pomeriggio, prima del voto: un attimo che però non si scioglie in un sorriso; gli occhi del premier ritornano fissi su un foglio bianco, che stringe con le mani, che guarda con insistenza, il volto privo di emozioni.
L’arrivo al Quirinale
Alle nove di sera Berlusconi varca il portone del Quirinale ascoltando un’altra standing ovation, quella della folla che gli grida buffone, che lo dileggia, tira oggetti e una scarpa verso la sua macchina, in un carosello di giubilo che ricorda la vittoria in una finale di calcio e che finisce con l’assediare la sua residenza, sino a tarda notte.
Berlusconi rientra a casa con la stessa espressione del pomeriggio, una maschera di stanchezza che appare smarrita, incredula, quasi inconsapevole. È senza voce nel vero senso della parola, postumi dell’influenza, ma colpisce l’assenza di voce ufficiale, pubblica. Nel giorno dell’uscita di scena quello che è stato un grande comunicatore non fa dichiarazioni. Si sfoga al telefono: «Quanta amarezza, che dolore, quanta ingratitudine», confessa agli amici, alla famiglia, ai collaboratori, in una reazione in fondo naturale, prevedibile.
La mimica del Cavaliere
A Palazzo Chigi e a palazzo Grazioli, nei fotogrammi come nel tragitto che compie nel corridoio di Montecitorio, avvolto da una schiera di ministri e deputati, colpisce la stanchezza, la fissità  degli occhi: nel giorno delle sue dimissioni, Berlusconi affronta gli eventi con una mimica che ha dell’allibito, di colui che non è preparato ad un appuntamento con una storia che aveva immaginata diversa, che affronta con l’indecisione, forse anche la paura, dell’attore che non conosce la parte, ma che suo malgrado non può lasciare la scena. Almeno non prima del sipario.
E il sipario sulla storia del governante più longevo nella storia repubblicana, più amato e più odiato dagli italiani, si chiude poco prima delle dieci di sera negli uffici del Quirinale, di fronte a Giorgio Napolitano. Berlusconi firma le sue dimissioni, apre al governo di Mario Monti, pone delle condizioni sui tempi e sui programmi del nuovo esecutivo: sono dettagli di rilievo, preludio di altre trattative, ma che scolorano di fronte al valore simbolico di una giornata che difficilmente il protagonista dimenticherà .
Una giornata di incontri
Poco dopo l’ora di pranzo l’incontro con Monti segna una discontinuità  di linguaggio, di metodo, d’atmosfere: due ore non servono ad incastrare le esigenze del premier in pectore, il presidente della Bocconi, e quelle del premier uscente. Vorrebbe, Berlusconi, garanzie su Viminale, Giustizia ed Economia: profili di ministri moderati, non ostili. Vorrebbe un accordo di massima sulla durata del nuovo governo, che non dovrebbe andare oltre i punti della lettera della Bce.
Vorrebbe, ma non può, sembra di capire. Tanto che i punti divengono condizioni del Pdl, materia per consultazioni e non per intesa preventiva. Pranzo «cordiale», viene definito, e nelle parole della politica significa franco, educato, ma non per questo produttivo.
Gli altri incontri della giornata non sono più facili: quello a Montecitorio con Maroni e Calderoli, l’ultimo disperato appello alla Lega, il tentativo di tenere insieme l’alleanza anche sotto il governo Monti. Il Carroccio dice di no, per l’ennesima volta, e Berlusconi è costretto a prenderne atto: quando si tornerà  al voto i leghisti ci andranno con il vento in poppa della permanenza all’opposizione, un’altra brutta notizia.
A sera, nell’ufficio di presidenza del Pdl, l’ultima ora da premier collima con una promessa di forza, a futura memoria: «Staccheremo la spina quando vorremo», un modo per rimarcare che il primo partito di maggioranza sarà  decisivo anche nei mesi venturi, al Senato se non alla Camera.
È un guizzo, come quell’attimo in cui si alza Scilipoti, alla Camera, per prendere la parola: il Cavaliere lo guarda con occhi paterni e finalmente ha un lieve sorriso; il simbolo della resistenza ad oltranza, della voglia di non mollare, una strategia naufragata che persino in lui, sembra, suscita ora benevola ironia.
I ringraziamenti alla squadra
Mentre la notizia delle dimissioni viene rilanciata come breaking new in tutti i notiziari del mondo si fa fatica a rintracciare una sola parola, anche in forma di indiscrezione: dopo 17 anni di comunicazione irrituale, straripante, bulimica, il Cavaliere è politicamente senza voce. Il Consiglio dei ministri dura pochi minuti, il tempo di ringraziare Letta e i ministri, il primo «in particolare», per il lavoro svolto.
Due ore prima è rimasto a guardare, quasi incredulo, il tabellone elettronico di Montecitorio; alcuni lunghi istanti con gli occhi fissi sul numero della maggioranza che ha approvato la legge di stabilità : 380 voti, uno sguardo che sembra ipnotizzato, lo zero è invertito rispetto a martedì, giorno in cui la sua maggioranza è franata a 308 voti. Senza di lui il centrodestra vota di nuovo unito.
«Il governo Monti non potrà  durare sino alla fine della legislatura, il tempo di alcune riforme e si torna a votare», dice ai suoi prima di salire al Colle. Ma toccherà  ad altri guidare il centrodestra.


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