by Sergio Segio | 6 Novembre 2011 7:46
GENOVA — Sul marciapiede di via Galata pieno di stivali sporchi di fango e di gente che se li contende a colpi di ombrello non c’è posto per un passante, figurarsi per un pensiero.
Dalla parte opposta della strada Walter Zampaloni, titolare dell’omonimo negozio di scarpe, guarda basito questa ressa, con i vigili costretti a separare i contendenti a caccia di scarpe infangate. «Mio zio l’aveva detto, tra dieci minuti non resta più niente…». Il magazzino del negozio al centro del quadrilatero dello shopping genovese è andato completamente sott’acqua. Ieri pomeriggio zio, nipote e commesse hanno cominciato a spalare, gettando via cinquanta paia di scarpe griffate ma ormai inservibili. «Da qualche parte si deve pur ricominciare» dice una donna vestita da un giaccone Fay al vigile per giustificare l’accanita difesa di due stivali Paciotti.
L’alluvione ai tempi della crisi è anche questo marciapiede, dove tanti volontari spalano senza fermarsi un attimo, e accanto a loro i passanti del sabato colgono l’occasione di uno shopping inatteso, immagine di una città spaventata e senza bussola, più che di ingordigia spicciola. Genova il giorno dopo è fatta d’acqua, che piove dal cielo senza fermarsi un minuto, e sgorga dai tombini congestionati. Una città che si risveglia sotto a un cielo senza luce, con i lampioni e i fanali delle poche auto in giro già accesi alle nove del mattino.
L’ingresso della casa al civico 2B di via Fereggiano è ormai sgombro. L’angolo sporgente della palazzina è stato il rullo, questo il termine tecnico con il quale gli esperti dei vigili del fuoco chiamano il rigurgito dell’acqua quando trova davanti a sé un ostacolo e diventa un cilindro che non dà scampo a chi viene preso dentro. E la cantina si è trasformata in un «colino» che ha risucchiato anche la vita di cinque esseri umani.
La spiegazione tecnica di una tragedia assurda è tutta qui, ma la sensazione è che le risposte alle domande dei magistrati che hanno aperto un’inchiesta per disastro e omicidio colposo vadano cercate più in alto, a monte, ancora più su del punto sotto largo Merlo dove si sono rotti gli argini. Al numero 28 c’è una casa coloniale appena rifatta, dall’intonaco color rosa antico. Si affaccia sull’argine, che in quel punto si stringe di almeno un paio di metri. Al numero 30 invece c’è una palazzina di otto piani, con l’atrio completamente allagato. È stata costruita nel 1972, prima c’era solo un piazzale, una terrazza coltivata. A Genova i verdurai vengono chiamati ancora oggi «bisagnini», e qualche orto ancora si vede, sulle sponde di questo rio che è il primo affluente del Bisagno.
Maria D’Alura è arrivata qui che era bambina, al seguito del capofamiglia Eligio, che qui tutti ricordano ancora come «il nonno dei limoni», per la sua bancarella piena di agrumi. «Si stava bene» dice. Abita in un palazzo popolare di otto piani con annesso ufficio postale, edificato nel 1960 al centro della tombinatura del Fereggiano. Con candore, Maria dice che all’epoca non avevano fatto le cantine, e non capisce che non si trattava di una scelta. Quest’anno, però, hanno costruito un garage sotterraneo, i lavori sono terminati da pochi mesi. E il suo sguardo va agli altri palazzoni che incombono sull’argine, quelli della città nuova che accoglieva manodopera del Sud per l’Italsider. «Forse pesiamo troppo» dice.
La ricerca della normalità , con la strada che butta ancora acqua, termina dopo pochi minuti. È venuta giù un’altra frana, dritta nel Fereggiano, e c’è il rischio di una nuova onda. Non è niente, solo un altro falso allarme, ma genera una corsa frenetica e di massa verso le alture di Marassi, decreta l’impossibilità del ritorno a una quotidianità accettabile.
Genova oggi è tutta così, in bilico tra buona volontà e depressione. Sul ponte Castelfidardo ogni tanto si vedono i bambini che giocano a pallone nel letto asciutto del Bisagno. Oggi il torrente sembra un fiume, che si infila sotto alla massicciata della stazione Brignole in quattro gallerie che sembrano troppo strette. È sempre stato quello l’imbuto del corso d’acqua più temuto della città , che nel 1970 si portò via 24 persone. Donato Beninati, impiegato del Comune che sta dando una mano a liberare la strada, ha uno sguardo depresso. «Tanto lo sappiamo tutti che prima o poi succede ancora». Intorno non c’è un’anima, corso Galliera è deserto, dai suoi bassi escono ancora fiotti d’acqua. «È il destino di questa città » dice, «una alluvione ogni due anni. E non possiamo farci niente. O forse non vogliamo».
A Genova si respira acqua e fatalismo, in egual misura, una rassegnazione che alla lunga vince anche sulla rabbia di giornata. La sensazione che non si possa fare nulla, non si possa scappare a un destino scritto nelle fondamenta della città . Al termine di via Brigate Salerno, nel cuore di Sturla, ci sono tre officine immerse nella melma uscita dal torrente che dà il nome al quartiere. Claudio Cipriani e il suo papà asciugano il pavimento senza una parola, con gesti automatici. Hanno messo i gioielli di famiglia sui carrelli per le riparazioni, una Ducati 250 del 1969, un Aermacchi 125 del 1974 che adesso sono appese a mezz’aria. «Meglio prepararsi. Qui ci può aiutare solo la pioggia, se smette».
Dalla villetta accanto, impugnando spazzolone e secchiello, esce un distinto signore che si chiama Antonio Riggi. Indica una serie di tombini e una stradina che costeggia lo Sturla. «Venerdì il torrente è uscito da qui. Lo stesso identico punto dell’altra volta». Il 27 settembre 1992 caddero 150 millilitri d’acqua in due ore. E poi punta il dito verso una casa diroccata. È il posto dove quel giorno morirono nonna e nipotino, Adriana, di 85 anni, e Alessandro di 5, annegati nel loro appartamento al piano terra. «Lei crede che sia cambiato qualcosa da allora?».
E così, seguendo le scie d’acqua lasciate dal Fereggiano, si torna nel salotto buono della città . La farmacia all’angolo tra via Galata e via XX Settembre ha due orologi digitali. Uno segna l’ora giusta, l’altro è fermo alle 12.58, il momento esatto in cui la città è andata sott’acqua. «C’è stato un cortocircuito» dice il titolare. «E mi riferisco a tutta la città ». La Fnac è stata sventrata dai flutti, i muri dei magazzini dell’Upim sono crollati, la profumeria Limoni non è stata salvata dalle serrande abbassate. E come poteva, si chiede Walter Zampaloni, sconsolato tra le sue scarpe ormai da gettare. Mostra una lastra di metallo che aveva messo alla base della saracinesca. È piegata, come se avesse preso un colpo di maglio al centro. «Vince sempre lei, l’acqua».
Sull’altro marciapiede i ragazzini che hanno vinto alla riffa delle scarpe dismesse le vendono al miglior offerente, venti euro per due stivali nuovi ma infangati. I vigili li guardano, scuotono la testa, e infine sorridono. Forse ha ragione la signora dal giaccone elegante. Da qualche parte bisogna pur ricominciare.
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