Ichino uno e due, le contraddizioni di un giuslavorista

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Sono le accuse che anche noi del «manifesto», così come gran parte della sinistra italiana e una cospicua parte del suo stesso partito, gli abbiamo sempre rivolto. Una per tutte: la sua proposta di modifica del diritto del lavoro, ossessivamente incentrata sul superamento dell’articolo 18 dello statuto dei lavoratori che prevede la reintegra dei licenziati senza giusta causa, comporta uno smantellamento dei pilastri su cui si è retto finora il confronto, e il conflitto, tra capitale e lavoro. È un punto di vista legittimo, condiviso dalle associazioni imprenditoriali sul versante sociale e dalle destre su quello politico. Ma perché allora Ichino si ostina a dare la sua battaglia militando in un esercito ostile, quello del centrosinistra?
A questa accusa la risposta convinta è che soltanto dalla trincea del centrosinistra è possibile vincere questa battaglia. E Ichino non ha tutti i torti, se si ritiene che il suo grimaldello per liberare da burocrazie e vincoli il mercato del lavoro, attrarre gli imprenditori stranieri e rilanciare l’economia italiana, ridurre le divisioni tra «non garantiti» e (presunti, diciamo noi) «garantiti», impugnato da un fronte «amico» potrebbe alla fine scardinare positivamente il vecchio edificio novecentesco evitando, o comunque tenendo sotto controllo, la protesta sociale.
L’articolo 18 è la causa di tutti i mali, chi ancora vi si aggrappa nonostante tuteli ormai una minoranza di lavoratori, è un conservatore. E quando il centrosinistra non ha il coraggio del cambiamento di rotta al timone finisce la destra e le riforme le fa a modo suo. Come Sacconi con l’articolo 8 della manovra d’agosto. I giovani non hanno prospettive, i vecchi sono troppo tutelati e le aziende non riescono a liberarsene per colpa dei soliti vincoli; la miriade di forme contrattuali esistenti nasconde un’esplosione del precariato. Dunque, contratto a tempo indeterminato per tutti, naturalmente con le dovute eccezioni e un lungo, molto lungo tirocinio senza diritti. Della serie: te li devi guadagnare. Abilmente, ma anche spudoratamente, Ichino (quello di destra intervistato, non quello di sinistra che lo accusa) racconta casi estremi di ricorso all’articolo 18 che fanno del male sia alle aziende che ai licenziati, che agli altri lavoratori. Chissà  se convince il suo interlocutore, a noi non ha convinto.
È coerente Ichino quando difende la «rivoluzione» di Marchionne e la legittimità  dello scambio di Pomigliano (noi diremmo ricatto) tra lavoro promesso e diritti (a eleggersi i rappresentanti, a scioperare, ad ammalarsi, a contrattare le condizioni di lavoro) cancellati. Si infuria invece con il suo alter ego per l’accusa di essere «servo di Marchionne»: «Quell’epiteto che i miei contestatori mi hanno affibbiato nell’autunno 2010 non ha molto senso… il piano “Fabbrica Italia” era ancora al di là  da venire… Questo non toglie che, se qualche mia idea si è rivelata utile per preparare il terreno agli accordi del 2010 di Pomigliano e Mirafiori, non posso che rallegrarmene». In altre parole, è Ichino la mente, e Marchionne nient’altro che il braccio esecutivo.
Inchiesta sul lavoro (Mondadori, pp. 240, euro 18) è un libro interessante e c’è anche il rischio che sia anticipatorio di quel che ci aspetta. Per esempio, dice Ichino, se i calabresi fossero intelligenti offrirebbero le loro prestazioni, magari a multinazionali straniere, a un costo del 25% inferiore a quello nazionale. Chissà  che qualcuno, tipo Mario Monti, non trovi interessante questa proposta.


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