Gli islamici si tengono in disparte E puntano sulla vittoria alle urne

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Migliaia di aderenti alla Fratellanza islamica e a Libertà  e giustizia, il maggior partito nato dalle costole del movimento, hanno marciato su piazza Tahrir contro i «principi extra costituzionali» voluti dalla Giunta, il tentativo dei militari di garantirsi enormi poteri nella futura Carta e sui prossimi Parlamento e governo. Poi la rivolta ha perso il carattere islamico, mille anime si sono aggiunte e mischiate. Ieri alla «marcia del milione», i Fratelli ufficialmente erano assenti. Il contrario di quanto avvenne in gennaio quando il gruppo disertò le prime manifestazioni per unirsi in un secondo momento.
Per molti analisti, soprattutto stranieri, le ultime decisioni provano che il movimento sa di potersi piazzare bene o benissimo alle elezioni previste per lunedì: venerdì la protesta contro il commissariamento del «loro» futuro governo; ieri la rinuncia a forzare la mano alla Giunta nel timore che il voto che li favorisce venga annullato. In serata, il generale-reggente Mohammed Tantawi ha confermato le elezioni e ceduto su un altro punto chiesto dalla Fratellanza insieme peraltro ai maggiori partiti: le presidenziali si terranno entro giugno.
Che gli «Ikhwà n», i Fratelli, siano forti e organizzati è indubbio, per decenni sono stati la prima forza di opposizione al regime, perseguitati e vietati come partito, pur riuscendo a mandare in Parlamento molti «indipendenti», attivissimi nel sociale, dagli ospedali all’assistenza ai poveri, percepiti (probabilmente a ragione) tra i pochi non afflitti dalla malattia nazionale, la corruzione. Ma quanto lo sono oggi e come usciranno dal voto? I pochi sondaggi che circolano vanno da una vittoria decisa (a loro il 38%, ai salafiti il 12%), a un’affermazione del fronte islamico non oltre il 25%. Ma nel clima attuale, in un Paese con 24 milioni di elettori per la prima volta di fronte a una vera scelta tra decine di partiti, i sondaggi significano poco. Gli stessi autori delle inchieste lo ammettono. E se i leader islamici si dicono ovviamente molto ottimisti, altri sono scettici. Come Hisham Kassem, uno dei politologi più stimati in Egitto, fondatore di giornali indipendenti tra cui Al Masry Al Youm, già  vice del partito Al Ghad, presidente della prima Ong sui diritti umani, consulente della diplomazia occidentale e Usa in particolare.
«Poche cose sono certe in questo momento che trovo il più pericoloso e preoccupante da gennaio, ed è che nessuno potrà  governare da solo e si dovrà  arrivare a una coalizione», dice Kassem dal Cairo. «Ora, con la Fratellanza nessuno si unirà , tranne i salafiti. Ma la forza di entrambi è in calo dall’era Mubarak. Venerdì ero alla loro marcia, faceva paura sentirli urlare alla gente “siamo pronti al martirio, voi lo siete?”. Gli egiziani non vogliono martiri e teocrazie, e l’indubbia forza organizzativa dei Fratelli non copre le carenze politiche e gli errori». Tra cui l’aver perso «molti dei giovani più brillanti e preparati, che hanno fondato un loro partito, Altyar (la corrente), e sono stati espulsi. O Abdelmoneim Abul Futuh, forse il migliore tra i leader storici, che si è candidato alle presidenziali ed è stato costretto ad andarsene». Ieri, inoltre, molti altri hanno minacciato di lasciare il movimento o il partito Libertà  e giustizia perché contrari a ritirarsi da piazza Tahrir.
Nel frattempo, continua il politologo, le cose sono cambiate nel Paese: «I voti di protesta che prendevano un tempo ora andranno ad altre forze, e in particolare al fronte creato da tre partiti laici: il ricchissimo Liberi egiziani di Nagib Sawiris, che spera nell’elettorato cristiano, i Socialdemocratici, ben organizzato e con nomi stimati, lo storico partito socialista Tagammu». Anche Kassem ammette che è missione impossibile fare previsioni precise. Ma si dice sicuro che «l’onda islamica non travolgerà  l’Egitto» anche perché «i militari, nonostante tutto, manterranno almeno per un decennio un potere enorme».


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