Gli ayatollah e la strategia della tensione

by Sergio Segio | 30 Novembre 2011 7:52

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E ieri, sempre gli «studenti», in realtà  attivisti legati alla milizia dei basiji, hanno preso di mira quella britannica. Uno sfregio che risponde alla strategia della tensione del regime. Una tattica in risposta alla pressione diplomatica — sintetizzata dalle dure sanzioni economiche varate da Londra — e da quella psicologica, marcata dal quotidiano rincorrersi di voci su misteriose esplosioni all’interno di siti strategici.
Teheran, in questo modo, vuole riprendere l’iniziativa dimostrando di essere capace di creare problemi. Mi colpite ai fianchi — sembra dire il potere — e noi restituiamo lo schiaffo in modo diretto. Anche se, secondo costume, la ritorsione è affidata ai cosiddetti «studenti», pronti a scattare come robot a un ordine della Guida. Il segnale d’attacco, infatti, è venuto 24 ore prima proprio dal leader Alì Khamenei che ha indicato nella Gran Bretagna «l’icona dell’imperialismo». Poi è stata la rabbia «naturale» dei cittadini a fare il resto. Un teatrino dove il governo può scaricare la colpa sulla folla, ordinare il fermo di qualche dimostrante e avere la faccia tosta di «deplorare» quanto è avvenuto. Un copione che gli iraniani usano dagli Anni 80 e che hanno riadattato alle esigenze attuali.
A Teheran, infatti, non sono giorni facili. Le autorità  sono costrette ad acrobazie verbali per smentire una lunga striscia di episodi poco chiari. Prima l’esplosione in un impianto missilistico che ha provocato la morte di un alto ufficiale e danni consistenti. Quindi la fine dai risvolti oscuri di un figlio della nomenklatura, Ahmed Rezai, trovato senza vita in un hotel di Dubai. Morte naturale — come rassicura la versione ufficiale — o ammazzato durante un interrogatorio brutale dei pasdaran? Due giorni fa un altro «botto» in una città  chiave come Isfahan, che ospita un centro nucleare e siti militari. Un portavoce ha sostenuto che si è trattato di un problema verificatosi nel corso di una esercitazione. Incidenti o sabotaggi che siano, si tratta di eventi che non è possibile nascondere. Invece il regime, di solito generoso nel denunciare i complotti, nega su tutta la linea arrivando persino a smentire che sia avvenuto qualcosa.
Diversi osservatori sostengono che i mullah non vogliono farsi trascinare in una trappola di azione e controazione. Neppure vogliono offrire pretesti a chi è pronto a stringere ancora di più il cappio. Al tempo stesso, però, non possono ignorare la loro vocazione alla sfida, gli impulsi degli estremisti e la voglia di vendetta dei parenti dei «martiri». Ecco allora le rivelazioni sulla cattura di una dozzina di agenti Cia, le minacce contro chiunque oserà  (dunque domani e non oggi) attaccare l’Iran e infine l’assalto all’ambasciata, molto coreografico e che riattizza lo spirito rivoluzionario.
Gli ayatollah provano a regolare il fuoco della risposta, cavalcano questo o quell’episodio, e tengono testa alla comunità  internazionale. Temono nuove sanzioni, però pensano che saranno i loro partner economici a rimetterci di più. Non sottovalutano l’ipotesi di essere attaccati militarmente ma sono convinti che il blitz non sia così vicino. Il nemico — ha spiegato un analista molto ascoltato — non avrà  il coraggio di lanciarlo e si affiderà  ancora alle operazioni segrete. Si gioca allora sui nervi, provando a dimostrare che l’altro è più debole, costringendolo a un passo indietro, mettendolo in imbarazzo. E quando è possibile si affonda un colpo. Sperando che non inneschi uno scontro totale.

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