Geografie del «land grab»

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Da un lato multinazionali dell’agrobusiness di paesi ricchi (Europa e Stati uniti o anche paesi del Golfo, o Corea del sud), dall’altro governi di paesi rurali e poveri come Etiopia, Madagascar – ovunque ci sia spazio, povertà , e governi disponibili.
Ora però la geografia del land grab riserva qualche sorpresa. Di recente infatti nel grande business internazionale della terra arabile si sono buttati anche paesi come la Cina e l’India – perfino il Bangladesh. Del caso indiano parla in modo approfondito uno studio ripreso da Grain, rete internazionale di ricerca sull’agricoltura (Rick Rowden, India’s role in the new global farmland grab, 2011). Conta ben 80 aziende indiane che hanno già  investito 2,4 miliardi di dollari nell’acquisto o leasing di piantagioni nella sola Africa orientale – Etiopia, Kenya, Madagascar, Mozambico – e Senegal (altre compagnie indiane guardano al sud America e in almeno un caso al sud-est asiatico). Uno dei contratti più importanti descritti nello studio di Grain riguarda l’Etiopia, paese diventato una sorta di esempio negativo di come un governo può svendere d’autorità  grandi parti del suo territorio nazionale ignorando i suoi stessi cittadini. Si tratta dell’acquisizione di circa 300mila ettari di terra arabile nella regione di Gambela da parte dell’azienda indiana Karuturi Global Ltd. Il governo etiope sostiene che si trattava di terre marginali e/o non sfruttate, che ora saranno messe “a frutto” e rese produttive. Ma questa versione è contestata da diversi osservatori locali: non ci sono terre “inutilizzate”, ci sono coltivatori con mezzi artigianali e pastori nomadi – e quando le terre date in concessione a grandi aziende viene recintata, loro perdono l’accesso ai pascoli e all’acqua. Altri fanno notare che le nuove pratiche agricole sono efficenti perché sono meccanizzate, fanno grande uso di fertilizzanti e agrochimici (che poi inquineranno le falde idriche) e soprattutto usano parecchia acqua – che tolgono ai piccoli coltivatori locali.
Secondo il contratto firmato con il governo etiopico, leggiamo, Karuturi prende in concessione i primi 100mila ettari per 50 anni all’equivalente di 60 dollari per ettaro, e pagherà  un “affitto” annuale di 1,18 dollari per ettaro. Con questo acquisisce il «diritto» a disporre di quella terra, a scavare pozzi, costruire dighe se lo ritiene necessario – l’acqua è inclusa nel prezzo, e non è fissato alcun limite alla quantità  che può attingere. Sarà  esente da tasse e dogane ogni bene che l’azienda importerà  (macchinari, ecc.) e che esporterà  (derrate agricole) e anche il rimpatrio dei capitali. Il contratto non fa menzione alcuna a norme di protezione del lavoro, salari e trattamento dei lavoratori agricoli, né impone di destinare una qualche quota delle derrate prodotte al mercato interno. Una economista indiana osserva, con orrore, che secondo il contratto firmato con Karaturi il governo etiopico si impegna a consegnare la terra pattuita «libera da impedimenti»: ovvero sfratterà  gli abitanti locali, se saranno di ostacolo al progetto, se necessario con la forza (Jayati Ghosh, su Frontline, 10-23 settembre 2011). Così, fa notare l’economista, aziende indiane vanno a fare in un paese terzo proprio ciò che in India stessa ormai provoca tante polemiche, resistenze, proteste ogni volta che popolazioni rurali sono costrette a sfollare per fare spazio a progetti agro-industiali. Ironie della storia – o delle geografie globalizzate.


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