Fuga da campo Ashraf il lager dei mujahiddin

by Sergio Segio | 2 Novembre 2011 7:09

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RASHT (GILAN, IRAN). Ghaffar Balafkandeh, che oggi ha 33 anni, era in Turchia nel 2001. Alla disperata ricerca di lavoro, con nemmeno più un soldo per comprarsi il pane, fu avvicinato da alcuni connazionali iraniani che gli offrirono cibo e un letto a Istanbul, e gli proposero di seguirli in Iraq: lì – gli promisero – avrebbe avuto una buona paga, la possibilità  di emigrare presto in Germania e di prendere moglie. Fu così che dieci anni fa Ghaffar arrivò a Campo Ashraf, la base che Saddam Hussein aveva dato negli anni ‘80 ai Mujahiddin-e Khalq (Mek), l’Esercito di liberazione nazionale dell’Iran, un gruppo fra i più attivi nell’opposizione al regime degli ayatollah. Saddam diede loro armi e denaro, in cambio dell’aiuto prima nella guerra contro l’Iran, poi nella repressione di curdi e sciiti all’interno dell’Iraq.
Ghaffar capì presto che le promesse erano vane: a Campo Ashraf non trovò né una buona paga né mogli, né libertà . Trovò, piuttosto, una setta dove i nuovi membri venivano reclutati con l’inganno, vigeva il divieto di esprimere opinioni diverse da quelle dei due leader, Massud e Maryam Rajavi (che vivevano all’estero), e l’accesso al telefono, a internet, a informazioni dal mondo esterno erano vietati.
Ma ormai era tardi. Chi, come Ghaffar, chiedeva di andarsene, veniva sottoposto a riti di umiliazioni pubbliche, di insulti, alla minaccia di due anni in isolamento nel campo «per non far rivelazioni una volta uscito», seguiti da altri otto nel famigerato carcere di Abu Ghraib perché – così lo minacciavano – gli iracheni lo avrebbero arrestato come clandestino prima di consegnarlo all’Iran dove lo attendeva una condanna a morte.
Terrorizzato, Ghaffar restò nella base anche quando gli americani, dopo l’invasione dell’Iraq, nel 2007 disarmarono i Mujahiddin, intervistarono i 5000 residenti di Campo Ashraf e allestirono un campo provvisorio (Tipf) per chi voleva andarsene. «Però, le parole dell’interprete iraniana degli americani mi rimasero in testa», ricorda il giovane. «Lei mi disse: “Tutto ad Ashraf è una simulazione, una bugia”. Non smisi più di pensare a come andar via».
Quattro anni dopo, gli è riuscito. Due settimane fa, Ghaffar è tornato dalla famiglia a Sari, una cittadina sul Caspio, nel nord dell’Iran. Ha passato due mesi in un albergo allestito a Bagdad dal governo iraniano per aiutare, in certi casi “deprogrammare” i fuoriusciti dal campo. Il giovane è fuggito assieme a un amico, benché fare amicizia al campo fosse impossibile: era vietato sedere vicino a un’altra persona e parlare, c’erano informatori dappertutto. Ma i due si erano capiti e una sera, mentre gli altri erano a cena alla mensa, avevano scavalcato la barriera di ferro e filo spinato.
Ora siamo a Rasht, nel Gilan, in territorio iraniano. Nelle regioni sul Caspio sono arrivati molti ex Mujahiddin, fuggiti come Ghaffar o usciti con l’aiuto dei soldati americani. Il Mek era nato negli anni ‘70 come movimento islamico-marxista di opposizione allo scià  ma, dopo la rivoluzione del ‘79 e una serie di attentati contro la Repubblica islamica, i suoi membri furono giustiziati in massa da Khomeini o costretti a scappare. La trasformazione in setta cominciò negli Anni Novanta dopo la prima guerra del Golfo. Quando Saddam ordinò loro di volgere le armi contro curdi e sciiti iracheni, molti mujahiddin rifiutarono e vollero andarsene, racconta Mohammad Reza Goli Eskandari, l’amico di Ghaffar. Fu allora che il movimento scivolò nell’incubo della setta: tecniche di lavaggio del cervello, separazione ferrea fra maschi e femmine, compresi i bambini; tutti erano sottoposti al voto di castità , all’obbligo di riferire i propri sogni e pensieri, e a confessare in pubblico i propri turbamenti sessuali nelle “pulizie ideologiche” settimanali. Chi deviava dalle opinioni dei due leader, Massud e Maryam Rajavi, veniva deriso, imprigionato, a volte ucciso.
A Campo Ashraf restano 3400 persone. Quasi tutti vorrebbero andarsene, dicono i miei interlocutori. In più, il premier iracheno Al Maliki ha decretato l’evacuazione della base entro la fine di dicembre. Ora gli iraniani, che hanno lì i propri familiari, temono che i leader del campo siano disposti a tutto pur di non veder svuotata la loro base. Se infatti questi ordineranno la resistenza, o se la gente si darà  fuoco come nel 2003 quando Maryam Rajavi fu arrestata in Francia, potrebbe avvenire una strage. Già  si sono visti 30 morti in aprile, quando le autorità  irachene sono entrate nel campo per insediarvi un posto di polizia, accolti da una sparatoria. Le famiglie si appellano alle organizzazioni umanitarie internazionali, all’Onu, perché entrino nel campo prima di dicembre, e parlino coi loro congiunti. Finora, però, nessun ente umanitario è riuscito ad entrare ad Ashraf, e né la Croce rossa ha potuto consegnare le lettere delle famiglie ai destinatari, sequestrate dai leader.
Il caso di Campo Ashraf rischia di essere dimenticato. I familiari dei 3400 mujahiddin nel campo temono che loro richieste resteranno inascoltate; che il Mek verrà  eliminato dalla lista delle organizzazioni terroristiche compilata dagli Stati Uniti, com’è già  successo due anni fa nella Ue. Maryam Rajavi ora è ricevuta con onore in molte capitali occidentali. Quanto all’Iran, l’interesse per i mujahiddin s’è affievolito: i giovani non ne hanno memoria, gli anziani li disprezzano per la loro alleanza con il nemico Saddam. Il regime iraniano però vede la loro mano dietro ogni fatto di sangue, ogni complotto, persino dietro alle proteste innescate dalle elezioni del 2009. In queste condizioni, le sorti di Campo Ashraf rischiano di sfuggire al controllo internazionale.

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