Francia Deficit, costo del lavoro e competitività da tre fronti la minaccia del tracollo
PARIGI – «Lo spread fra i nostri tassi e quelli tedeschi è ingiustificato», martella da giorni il ministro del Bilancio, Valérie Pécresse. E il collega delle Finanze, Franà§ois Baroin, ha voluto ieri rassicurare e rassicurarsi dopo la riuscita emissione di 8 miliardi di obbligazioni: «Non c’è sfiducia nei confronti della Francia. Il livello dei nostri tassi corrisponde a condizioni di finanziamento favorevoli. Le tensioni agitano prima di tutto il mercato secondario, più esposto alla speculazione sui tassi. Sul mercato primario, i nostri collocamenti si svolgono in condizioni soddisfacenti». E’ vero che le richieste sono state alte (le scadenze variavano tra i due e i dieci anni), i tassi restano contenuti, lo spread, che in mattinata era salito a 200 punti base, è ridisceso a 175. Ciò nonostante, la situazione è tutt’altro che rosea: fra i sei paesi dell’eurozona con la tripla A (gli altri sono Germania, Olanda, Austria, Finlandia e Lussemburgo) la Francia è quella in condizioni più difficili.
Perché la crisi del debito italiano apre la strada agli attacchi della speculazione, certo. Ma anche perché i suoi fondamentali non sono così buoni come vorrebbe far credere il governo. I mercati sono convinti che la perdita della tripla A sia ormai una questione di mesi. E’ probabile che le agenzie di rating evitino di interferire nella campagna presidenziale, gli operatori sono tuttavia convinti che la Finanziaria 2013, chiunque vinca la corsa all’Eliseo, sarà all’insegna di un severo rigore. E il rischio di provocare una recessione con i tagli al bilancio è già più che un’ipotesi di lavoro per alcuni economisti. Eppure, proprio il deficit è alla base delle preoccupazioni dei mercati: alla fine di quest’anno, il disavanzo di bilancio sarà del 5,4%, il deficit primario (cioè senza contare gli oneri legati al debito) sarà al 3%.
Il rischio è quello di far lievitare ancora l’indebitamento del Paese: «La soglia di insostenibilità del debito pubblico è stato fissato in maniera empirica attorno al 90% del Pil – ha spiegato ieri Jean-Philippe Cotis, direttore generale dell’Istituto di statistica – . I Paesi che raggiungono questa soglia critica devono mandare rapidamente segnali di rigore». Per la Francia, che a fine giugno aveva un debito pubblico pari all’86,2%, questo significherebbe soprattutto tagliare la spesa, che rappresenta il 53,7% del Pil, un livello record nell’eurozona. Certo, lo Stato francese è storicamente un attore imprescindibile dell’economia, ma il suo ridimensionamento appare inevitabile.
I conti pubblici non sono però l’unico motivo di preoccupazione, sottolinea Camille de Williencourt, economista della banca Natixis: «L’allargamento dell’indebitamento estero, dovuto al declino della competitività e alla deindustrializzazione progressiva dell’economia da dieci anni, rappresenta una parte importante della fragilità ». E’ uno snodo critico della crisi: nel 2011, il deficit commerciale raggiungerà il livello record di 75 miliardi, il 3,7% del Pil. Una voragine che si è costantemente ampliata dal 2003. Se le importazioni energetiche hanno il loro peso, s’impone tuttavia un’altra constatazione: quasi tutti i settori economici sono in rosso. Si salvano solo quelli tradizionalmente fortissimi: l’industria l’agro-alimentare, l’aeronautica, il chimico-farmaceutico, i cosmetici. E l’euro forte c’entra ben poco: la Francia è deficitaria anche con i Paesi dell’eurozona, compresa l’Italia.
Gli imprenditori non hanno dubbi sui motivi alla base di questo scivolone: il costo del lavoro troppo alto in un Paese in cui la previdenza sociale è finanziata per due terzi dai contributi versati dalle aziende. E poi le 35 ore: «Dieci anni fa il costo orario del lavoro era inferiore dell’8% a quello tedesco, oggi è superiore del 10%», sostiene Laurence Parisot, che dirige la Confindustria transalpina. Insomma, la ricetta degli industriali è quella classica: tagli al costo del lavoro e alla spesa pubblica. Non tutti gli economisti, però, sono d’accordo.
Molti sostengono che i problemi dell’export francese sono altri: la Germania, per esempio, esporta il 12% del suo Pil nei Paesi emergenti, la Francia solo il 4%. E la Francia non offre sui mercati internazionali i prodotti che potrebbero sollecitare il grande mercato delle classi medie emergenti, ma è forte in settori come le infrastrutture, che si rivolgono ai settori pubblici e non ai consumatori. Come se non bastasse, gli investimenti esteri dei francesi sono superiori agli investimenti stranieri Oltralpe. E’ dunque questo doppio indebitamento, pubblico e sull’estero, ad accrescere lo scetticismo dei mercati sulla. La crisi è venuta dall’eurozona, ma sta portando alla luce le crepe dell’edificio transalpino.
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