by Sergio Segio | 24 Novembre 2011 8:12
Chi non è, infatti, d’accordo con le affermazioni “Contratto stabile per un lavoro stabile”, “Il lavoro deve essere pagato bene”, “Garanzia della pensione”, “Diritto di voto e di sciopero per i precari/e”, ecc.? Alcune sono più discutibili, come la richiesta di “un reddito minimo di inserimento”. Inserimento dove? Se la precarietà – come viene velatamente riconosciuto anche da “Il nostro tempo è adesso” – è sempre più esistenziale, perché allora si parla solo di “continuità di reddito” (quindi erogato solo quando non c’è il lavoro) e per di più funzionale all’accettazione di un (qualsiasi) posto di lavoro? Se la precarietà è esistenziale perché la vita stessa è diventata fonte di valore, perché non avere il coraggio di chiedere una “garanzia di reddito incondizionato”?
Diritto alla malattia, alla maternità /paternità , alla formazione continua, diritto alla casa: in altre parole diritto a essere produttivi (per il capitale?). Diritti del tutto sacrosanti, che oggi sempre più vengono negati, in nome di una generalizzazione della precarietà che incide anche laddove esiste un lavoro “formalmente” stabile. Diritti però finalizzati al lavoro, non alla scelta del lavoro. La differenza è stellare, quella tra autodeterminazione e eterodeterminazione, tra libertà e subalternità .
Si potrebbe obiettare: meglio un reddito minimo seppur condizionato all’inserimento lavorativo, soprattutto in un contesto di crisi e di elevato debito pubblico che non consentirebbe di reperire le risorse necessarie, che il nulla attuale. Ma occorre osare e chiedere di più. Nel n. 1 dei Quaderni di San Precario (http://quaderni.sanprecario.info/), nel sito del Basic Income Network (http://www.bin-italia.org/article.php?id=1552) e nell’ambito della rete degli Stati Generali della Precarietà abbiamo, dati alla mano, dimostrato come un reddito di base incondizionato, in grado di garantire come minimo 800 euro al mese, sia economicamente e finanziariamente sostenibile e quindi possibile. Yes, we can.
C’è un vuoto assordante, inoltre, sugli aspetti legati alle forme di rappresentanza della condizioni di precarietà e nulla viene detto sulle pratiche politiche e sociali che dovrebbero consentire il raggiungimento degli obiettivi preposti.
Non può sorprendere, se analizziamo l’humus culturale e politico al cui interno si dipana la matassa dell’iniziativa “Il nostro tempo è adesso”. Lo sponsor sindacale di riferimento è la Cgil e quello politico il Partito democratico: due organizzazioni che non necessitano di ripensare nuove forme di (auto)rappresentanza, in quanto già le posseggono (e soprattutto le controllano). Anche se come un mantra viene spesso detto che “il futuro è nelle nostre mani”, il meccanismo della delega viene di fatto legittimato come l’unico strumento possibile al fine di ottenere qualche risultato tangibile. Il luogo della decisione politica è dunque il parlamento per l’ambito politico, la negoziazione tra le parti sociali per quello sindacale. Ma di quale parlamento e di quale negoziazione sociale stiamo parlando?
Con l’avvento del governo Monti, è diventato manifesto come il potere finanziario sia in grado di condizionare direttamente e non più indirettamente le stesse nomine politiche e, di conseguenza, come le scelte di politica del lavoro e di welfare siano a tale potere del tutto subordinate. Anche la negoziazione sindacale non sembra vivere un momento particolarmente felice, all’indomani dell’accordo sindacale del 28 giugno e dell’approvazione dell’art. 8 della finanziaria di agosto. La caduta di Berlusconi e l’avvento di Monti non fanno primavera. E lo dimostra il fatto che proprio in questi giorni è ritornata in auge la vecchia proposta, per i nuovi assunti, di un “contratto unico di lavoro a tempo indeterminato” contro la precarietà , in cambio della liberalizzazione totale dei licenziamenti individuali e di un sussidio di disoccupazione temporaneo. È questo l’obiettivo che tramite la delega politica e sindacale si vuole perseguire: l’introduzione di una politica di flexsecurity, nella tradizionale logica dei due tempi. Prima si garantisce la totale precarizzazione del posto di lavoro, poi si propongono sussidi di disoccupazione temporanei, ma generalizzati.
La precarietà oggi è irrappresentabile, non solo perché i dispositivi politici e sindacali (da quelli concertativi a quelli di base) sono del tutto inadeguati, ma perché, in quanto esistenziale, generalizzata e strutturale, non è condizione che può essere riformata e quindi mediata: può essere solo superata. E perché tale obiettivo possa essere raggiunto, è necessario che invece di flexsecurity si parli, piuttosto, di secur-flexibility. Ovvero, prima garanzia di reddito incondizionato e di accesso libero e gratuito ai beni e servizi comuni materiali e immateriali (welfare del comune), affinché, in un secondo momento, sulla base dei nuovi rapporti di forza che ne derivano, si possa discutere delle condizioni di lavoro e di sfruttamento. In altre parole, solo dopo che i precari e le precarie si sono liberati/e dal vincolo del bisogno e della sopravvivenza, si può affrontare, senza ricatti e subalternità , il tema della riorganizzazione del lavoro e della produzione.
Altrimenti, non si fa altro che generalizzare a tutti/e ciò che già oggi avviene nel mondo delle cooperative, dove il contratto di lavoro a tempo indeterminato è formalmente applicato in modo generalizzato, ma dove il grado di precarietà e subalternità è, guarda caso, il più elevato.
(Stati Generali della Precarietà )
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