Fine della Seconda Repubblica

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L’EPILOGO del governo Berlusconi è stato celebrato con soddisfazione da quanti lo hanno vissuto come una iattura – civile e politica – per il Paese.
Tuttavia, più che un successo delle opposizioni, va considerato, anzitutto, una sconfitta di Berlusconi e del berlusconismo. Intendendo con questo termine, (ab)usato in modo perlopiù indefinito, l’insieme dei valori e di riferimenti culturali, ma anche il modello di rappresentanza – e di alleanza – politica che egli ha espresso. Le dimissioni di Berlusconi, in altri termini, sono l’esito della delusione sociale e dell’implosione politica prodotte da Berlusconi stesso.
Il “berlusconismo” come “clima d’opinione” era in declino da tempo. Lo dimostrano i sondaggi (di Demos, pubblicati in queste pagine) che riproducono il calo della fiducia nei suoi confronti, crollato poco sopra il 20%, pur avendo superato il 50% nel maggio del 2009, dopo il terremoto in Abruzzo. Lo sottolinea, soprattutto, la depressione del sentimento sociale che egli aveva interpretato. Berlusconi, infatti, si è affermato perché impersonava l’imprenditore venuto dal nulla. In grado di guardare al futuro con ottimismo irriducibile. Perché, comunque, “noi ce la faremo”. Nonostante lo Stato, le regole, il pubblico, il fisco. Oggi questo modello è im-proponibile. La crisi lo ha reso impopolare. Funziona a rovescio anche la sua strategia di immagine, promossa attraverso il marketing e i media. L’ottimismo come ideologia, la vita esagerata, fra residenze private trasformate in sedi pubbliche, e ruoli pubblici usati a fini privati. Fra leader del mondo e ragazzine disponibili. Sotto gli occhi di tutti. Come un feuilleton senza fine. In tempo di crisi, tutto questo è divenuto insopportabile alla “gente comune”. Peraltro, egli non è riuscito a “onorare” i “contratti con gli italiani” sottoscritti in tv. I “mercati”, gli imprenditori, le categorie economiche, che pure gli avevano concesso un’ampia apertura di credito, lo hanno abbandonato. Sono divenuti suoi aspri oppositori, da amici indulgenti quali erano.
Anche la retorica del “fare”, alla fine, gli si è rivoltata contro. La promessa di ripulire le immondizie di Napoli – in due tre settimane. O di ricostruire L’Aquila terremotata. Nel “breve” hanno funzionato, in seguito gli si sono rivoltate contro. Perché le immondizie a Napoli – e altrove – ci sono ancora. E il centro storico di L’Aquila resta sepolto dalle macerie. Così l’Uomo-del-fare si è trasformato nell’Uomo delle-promesse-non-mantenute.
Sul piano politico, il berlusconismo coincide con il modello del “partito personale”, che dipende dal suo “patrimonio”, dalla sua identità , dal suo stesso “corpo”. E per questa stessa ragione non sopporta altri leader concorrenti né, tanto meno, oppositori. Il passaggio da Fi al Pdl ha indebolito questo modello. Perché l’integrazione (annessione?) di An ha reso il Pdl meno omogeneo e “governabile” dal punto di vista organizzativo e territoriale. La rottura con Gianfranco Fini e la successiva creazione di Fli è costata molto, al Pdl e a Berlusconi, dal punto di vista elettorale e politico. Ben oltre il peso limitato assunto da Fli. Il Pdl, inoltre, è stato indebolito anche dal crescente spazio conquistato dalla Lega. In grado di condizionare l’agenda di governo, in cambio del sostegno fedele alle uniche questioni rilevanti per Berlusconi. Quelle, appunto, più “personali”.
Così la maggioranza di governo è divenuta minoranza nel Paese. Incalzata da movimenti di opposizione in grado di affermare nuove e diverse domande, mobilitando la società 
Il Pdl si è ridotto al 25% degli elettori. Il centrodestra e Berlusconi si sono asserragliati in Parlamento. Una fortezza assediata da un’opinione pubblica ostile e dalla crisi economica globale. Dove il governo ha resistito a colpi di “fiducia” che alimentavano, in realtà , la “sfiducia”, dentro e fuori il Parlamento. La maggioranza stessa, d’altronde, è divenuta composita e fluida. Ostaggio, come ha lamentato ieri Berlusconi, di tanti “piccoli ricatti”.
Da ciò l’implosione. Il berlusconismo ha perduto il consenso sociale. E il centrodestra, minoranza nel Paese, è divenuto tale anche in Parlamento. Berlusconi ne ha preso atto.
Tuttavia, questa crisi ha natura, in parte, “extraparlamentare”. A costringere Berlusconi alle dimissioni, infatti, non è stata solo l’opposizione di centro e di centrosinistra, ma anche quella dei mercati e dei leader europei. Non è stata – soltanto – la sfiducia dei parlamentari, ma anche quella delle Borse, della Bce e della Ue. Che hanno espresso la loro “opinione” non attraverso il voto e neppure i sondaggi, ma attraverso il crollo delle Borse e dei titoli di Stato – italiani. In più: attraverso il collasso delle azioni di Mediaset. L’azienda del Premier Imprenditore. Senza dimenticare il ruolo svolto da molte voci critiche che si sono espresse nella sfera pubblica e sui media.
Da ciò due ulteriori considerazioni, importanti per riflettere sul futuro dell’Italia e della nostra stessa democrazia.
La prima riguarda l’incapacità  del nostro sistema politico e istituzionale di auto-riformarsi. La Seconda Repubblica è finita com’era nata: in seguito a un trauma esterno. Era sorta fra il 1991 e il 1993, a causa dell’incalzare di Tangentopoli e, prima ancora, per gli effetti della caduta del muro di Berlino. La Seconda Repubblica (per alcuni prolungamento della Prima, per altri la Terza), fondata “da” e “su” Berlusconi, è chiusa per implosione. E, di nuovo, per un collasso esterno: la crisi globale dei mercati e l’impatto sulle economie più vulnerabili. La nostra in particolare. Per l’incapacità  del nostro sistema politico di dare risposte all’emergenza economica, ma anche perché irriformato e irriformabile. Non è un caso che l’Italia si sia trasformata, di fatto, in una “Repubblica presidenziale”, guidata, in questa fase, dal presidente Napolitano. La figura istituzionale dotata del maggior grado di fiducia, presso gli elettori ma anche in ambito internazionale (e sui mercati). Ciò gli ha consentito di orientare la crisi. Ha scoraggiato le elezioni anticipate – che avrebbero lasciato per mesi il Paese senza risposte all’emergenza, in preda a conflitti laceranti. Ha, invece, sostenuto (e imposto) un governo tecnico, a largo sostegno parlamentare – esterno ed estraneo alle pressioni politiche e dell’opinione pubblica. In grado, per questo, di redigere e soprattutto realizzare provvedimenti efficaci ma anche impopolari.
La scelta di Mario Monti riflette questa logica ed è stata possibile solo perché orientata da Napolitano. Il quale ha trasferito sull’economista – in precedenza poco noto – la propria dote personale di popolarità  e fiducia (come ha rilevato Nando Pagnoncelli a Ballarò, sabato sera).
Da ciò la seconda considerazione – e il secondo problema. Questa crisi (extra-parlamentare) è stata affrontata almeno in parte in condizioni di “eccezione” democratica. Su pressione di poteri “esterni” alla nostra democrazia: la Bce, il Fmi, la Ue. Con la regia del presidente Napolitano, garante della Costituzione, ma eletto dai parlamentari (della precedente legislatura) e non dai cittadini. La formazione del governo è stata affidata a una figura prestigiosa, Monti, alla guida di una compagine di tecnici. Al pari di lui, non eletti, non “politici”. Scelti proprio per questo motivo: perché insensibili ed esterni alla “volontà  del popolo sovrano”. Tutto ciò, naturalmente, avviene in una crisi di sistema, a sua volta riflesso della crisi del berlusconismo e di Berlusconi. In condizioni di emergenza economica e politica. Mentre la stessa fiducia nella democrazia, fra i cittadini, mostra segni preoccupanti di cedimento (come ha mostrato la Mappa della settimana scorsa). Potremmo riprendere, per questo, un paradosso (apparente) avanzato, alcuni anni fa, da un intellettuale francese, Emmanuel Todd. A volte, per difendere la democrazia, occorre difendere la democrazia da se stessa.


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