FIAT Monti alla prova della «modernità »

by Sergio Segio | 24 Novembre 2011 8:44

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La politica, si sa, è una cosa sporca o quanto meno inutile, un impiccio per il libero fluire degli spiriti animali del finanzcapitalismo che impone le sue regole, le sue crisi e le sue soluzioni alle crisi che ha scatenato.
Marchionne è uno che non si perde in chiacchiere, per lui le trattative sono chiacchiere. Che dall’altra parte del tavolo ci siano i sindacati o «la politica», la morale non cambia. Vuole tutto, e subito. Il governo Berlusconi obbediva, Sacconi gli ha persino regalato una legge con effetto retroattivo per legalizzare quella mostruosità  del contratto di Pomigliano e neutralizzare così gli effetti di una sentenza di condanna per antisindacalità . E ora Sacconi, come un cane rabbioso a cui è stato sottratto l’osso, lancia anatemi contro il nuovo governo: guai a voi se mettete il naso nella vicenda Fiat. E dire che Monti e i suoi ministri sarebbero decisamente legittimati a mettere il naso in una vicenda che riguarda nell’immediato i più di 80 mila dipendenti Fiat e in prospettiva tutti i lavoratori italiani. Dopo aver chiuso tre stabilimenti in Italia fottendosene delle conseguenze, Marchionne ha dato comunicazione burocratica ai sindacati per annunciare la cancellazione di tutti i contratti stipulati dal 1971 in poi, se n’è andato da Confindustria e ha decretato la fine dei contratti nazionali di lavoro. Fim e Uilm applaudono, dopo essersi bevuti tutti i diktat dell’eroe dei due mondi, divieti di sciopero e di malattia compresi. Non hanno da ridire sul fatto che il modello Pomigliano escluda dalle fabbriche e dagli uffici il sindacato più rappresentativo, la Fiom, colpevole di non essersi fatta arruolare. Bonanni e Angeletti non hanno letto Martin Niemà¶ller: «Prima di tutto vennero a prendere gli zingari e fui contento, perché rubacchiavano. Poi vennero a prendere gli ebrei e stetti zitto, perché mi stavano antipatici. Poi vennero a prendere gli omosessuali, e fui sollevato, perché mi erano fastidiosi. Poi vennero a prendere i comunisti, ed io non dissi niente, perché non ero comunista. Un giorno vennero a prendere me, e non c’era rimasto nessuno a protestare».
Miserie a parte, il governo Monti come valuta la prepotenza della più importante industria italiana? Come giudica la fuga della Fiat negli Stati uniti? E il ministro Passera, l’ex banchiere che con altri soci salvò una Fiat dal rischio default, da che parte sta? E la ministra torinese Fornero si limiterà  a definire «delicata» la vicenda Fiat?
I diktat di Marchionne, però, non chiamano in causa soltanto il vecchio e il nuovo governo. Vi ricordate quando il Pd era all’opposizione e se la prendeva con la Fiom, colpevole di non aver firmato l’imbroglio di Pomigliano? Basta una firma, dicevano anche molti di coloro che oggi si spaventano per il golpe di Marchionne, Pomigliano è un caso unico e irripetibile. E agli operai di Pomigliano, poi di Mirafiori, quindi della Bertone davano lezioni: «Se fossi un operaio voterei sì» allo scambio lavoro/diritti. Sarebbe troppo chiedere a questi illustri strateghi un’autocritica, se non proprio delle scuse a Landini? L’unico a poter rivendicare con orgoglio la sua coerenza è Ichino, ieri come oggi da una parte sola: con Marchionne.
Oggi è l’ultimo giorno di lavoro a Termini Imerese. Marchionne chiude e lascia alla collettività  i costi sociali delle sue performances. Dice che gli costa troppo far attraversare lo stretto di Messina alle Ypsilon. In compenso l’ammiraglia Thema può attraversare l’Atlantico. Non ha niente da dire il governo Monti?

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