Fassina, il «signor no» del Pd diventa un caso

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ROMA — Nel Pd scoppia il «caso Fassina»: è il primo effetto dell’avvento del governo Monti sul Partito democratico. Il responsabile economico, voluto dal segretario Bersani, è diventato da qualche tempo un personaggio scomodo. Al punto che il quotidiano Europa ieri riferiva che sono in molti a volerne le dimissioni.
Finché Berlusconi era a palazzo Chigi, il fatto che Stefano Fassina in politica economica avesse una linea diametralmente opposta non solo a quella di Veltroni e Franceschini, ma anche a quella di un esponente di spicco della maggioranza del partito, ossia il vicesegretario Enrico Letta, sembrava non destare troppo imbarazzo. Era motivo di confronti accesi, come quello sulla lettera della Bce. Con Fassina che sparava a zero contro le indicazioni della Banca centrale europea: «La sua ricetta non funziona». E Letta che insisteva sulla necessità  di seguire le soluzioni prospettate dalla Bce. Interveniva Bersani, a dirimere i nodi, senza mai sconfessare del tutto il «suo» responsabile economico, ma cercando di frenarne gli ardori: «La nostra posizione sulla lettera della Bce è chiara: nessuna critica, ma sul pareggio del bilancio abbiamo le nostre ricette». Nessuna questione anche quando Fassina incrociava la spada con Pietro Ichino, che a suo avviso proponeva «fatue illusioni ai giovani impigliati nella precarietà ».
Ma appena si è messo in moto il processo che ha portato alla nascita del governo Monti, la linea del responsabile economico è diventata fonte di innumerevoli problemi per il partito. E qualcuno, oltre a protestare con il segretario, ha cominciato a prendere le distanze pubblicamente da lui. Tanto più dopo che Fassina, al contrario della stragrande maggioranza del Pd, non ha mostrato eccessivo entusiasmo per questo esecutivo. Nella riunione del coordinamento che si è tenuta la settimana scorsa, il responsabile economico ha tenuto a sottolineare che a suo giudizio «il governo d’emergenza non è necessariamente una soluzione migliore delle elezioni anticipate». Qualche giorno dopo, al Quotidiano Nazionale, ha spiegato che non è affatto «necessario» che Monti arrivi fino a fine legislatura. E ha lanciato un ammonimento: se verranno toccati i lavoratori dipendenti e il ceto medio «le tensioni saranno inevitabili». Non propriamente una dichiarazione di pace nei confronti del governo.
Ieri, dopo che Monti ha parlato, Fassina, che non è tipo da mollare, ha condito il plauso per le parole del premier con una serie di «se» e di «ma». E ha annunciato che è «un punto d’approfondire il passaggio di Monti dedicato ai lavoratori “troppo garantiti”». Per non lasciare spazi all’ambiguità , com’è nel suo stile, il responsabile economico ha precisato: «Le posizioni del Pd sono chiare e non prevedono ulteriori facilitazioni ai licenziamenti».
Dunque Fassina non sembra avere voglia di fare troppi sconti a nessuno. E questo suo atteggiamento lo ha reso bersaglio di qualche invettiva. Giorgio Merlo, per esempio, ha chiesto polemicamente «a nome di chi parla Fassina?». Mentre l’altro giorno Marina Sereni, nel corso di una trasmissione, per ridimensionare alcune prese di posizione del responsabile economico, si è affrettata a precisare che Fassina non è nemmeno un parlamentare. L’ultima puntura di spillo l’esponente del Pd l’ha ricevuta dal giornale online Qualcosa di riformista, curato dai giovani dell’ala liberal del Pd, che hanno suggerito a Bersani di regalare a Fassina un bel viaggio in Corea del Nord. Ma chissà  che in corso d’opera e di governo, Fassina non si prenda la sua rivincita. A sentire i timori di D’Alema non lo si può escludere: «Il quadro è cambiato — ha detto ieri il leader Pd ai deputati del suo partito — e noi dobbiamo tenere uno stretto rapporto con il Terzo polo, perché non vorrei che tutti i moderati si ricomponessero e poi ci salutassero con un “arrivederci alla prossima emergenza”».


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