E Papandreou silura i vertici militari

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Nel pomeriggio era chiaro che, in effetti, George Papandreou, il primo ministro greco, difficilmente sarebbe passato alla storia, a differenza del leader britannico, come il vincitore della sfida della vita, salvare la Grecia dal fallimento e dall’espulsione dall’euro. Il suo annuncio, sorprendente, di volere tenere un referendum popolare sul nuovo piano di salvataggio della Grecia, deciso dai leader della Ue solo pochi giorni fa, ha per ora prodotto un risultato catastrofico: la drammatica crisi finanziaria che Atene e l’Europa stanno combattendo da quasi due anni è diventata pienamente politica. Potenzialmente esplosiva per la costruzione stessa dell’Unione Europea.
Ad Atene la situazione è drammatica: almeno sei deputati del partito al potere, il socialista Pasok, si stanno ribellando e chiedono le dimissioni del premier che ha messo a repentaglio gli aiuti europei; l’opposizione denuncia Papandreou per comportamento distruttivo e irresponsabile e chiede le elezioni al più presto; dopo mesi di sacrifici i cittadini sembrano rassegnati al peggio. E, in una riunione straordinaria del Consiglio degli Affari esteri e della Difesa (Kysea), ieri pomeriggio, il governo ha anche licenziato il capo di Stato maggiore, generale Ioannis Giagkos, e i tre capi di Esercito, Aviazione e Marina. Non è chiara la ragione della decapitazione del vertice militare, fatto sta che la mossa non ha contribuito a tranquillizzare gli animi e a calmare lo scontro politico, visto il passato non proprio democratico delle Forze Armate greche.
A notte inoltrata, è terminata una riunione drammatica del governo, durante la quale Papandreou è stato messo sotto accusa ma è riuscito per il momento a non finire in minoranza. «Il referendum sarà  un chiaro messaggio, dentro e fuori la Grecia, sulla nostra rotta europea e sulla partecipazione all’euro — ha detto il primo ministro alla fine della riunione —. Nessuno potrà  mettere in dubbio la rotta della Grecia nell’euro». Nel resto d’Europa e nella stessa Atene, in realtà , la mettono in discussione parecchi: un crollo incontrollato del Paese — sicuro, se i cittadini votassero contro il piano della Ue — potrebbe aprire le porte a un terremoto finanziario e politico generale. Per questo le ore drammatiche di Atene possono essere di importanza storica.
L’annuncio dato da Papandreou, 59 anni, di volere tenere il referendum è il segno della disperazione di un leader che poco più di due anni fa aveva preso le redini del governo con l’intenzione di trasformare la Grecia in una moderna economia «verde». Ma che, dopo pochi giorni, si era accorto che i governi precedenti avevano truccato i conti pubblici e che il Paese era sull’orlo del precipizio finanziario. Da allora, ha passato ogni giorno stretto tra le garanzie da dare ai partner dell’Eurozona e le misure di austerità  da imporre ai suoi cittadini. Chi gli sta vicino racconta che il suo approccio alla crisi è via via girato al pessimista e all’umor nero, fino a spingerlo ad annunciare il referendum.
Una decisione presa in solitudine, con la quale sperava di riguadagnare forza nel suo partito, il Pasok, dove ha perso seguito. E con la quale puntava a riprendere l’iniziativa nel Paese, dove i sondaggi lo danno perdente di gran lunga nei confronti dell’avversario, il capo del partito conservatore Nuova Democrazia, Antonis Samaras. È invece successo che le divisioni tra i socialisti si sono accentuate, al punto che il peso massimo del governo, il ministro delle Finanze Evangelos Venizelos (misteriosamente in ospedale), ha preso le distanze da Papandreou per dire che, prima di annunciare il referendum, avrebbe dovuto almeno avvertire i leader europei (e magari anche i suoi compagni di partito e di governo).
Da oggi, la Grecia è insomma nel caos anche ufficialmente, con il governo in bilico. Un anno e mezzo di cura da cavallo ha portato l’economia in un buco nero: una contrazione dell’attività  di oltre il 15 per cento, la disoccupazione al 17 per cento (il 45 tra i giovani), centinaia di imprese che hanno chiuso, le pensioni sopra i 1.200 euro tagliate del 10 per cento e in prospettiva di un altro 20, le tasse aumentate, l’Iva che salirà  dal 19 al 23 per cento. Che la situazione dovesse precipitare non era difficile da prevedere. Infatti sta precipitando.
A questo punto, porre a plebiscito popolare l’accettazione o meno del secondo piano di salvataggio elaborato da Ue, Banca centrale europea e Fondo monetario internazionale equivale a chiedere agli sfibrati greci se vogliono lacrime e sangue certe in Europa o lacrime e sangue probabili fuori dall’Europa. Un rischio altissimo: i sondaggi dicono che il 60 per cento dei cittadini voterebbe contro il piano. Per parte sua, Papandreou ha detto che il referendum «è un atto supremo di democrazia e patriottismo». Che l’euro abbia bisogno più che mai di un’accettazione democratica, cosa che in pratica non ha mai avuto, è certamente vero. La scelta del primo ministro greco, però, sembra più dettata dalla disperazione che da un desiderio di partecipazione popolare. Tra oggi e venerdì, quando il governo chiederà  un voto di fiducia, si capirà  se questo esercizio «supremo di democrazia» si terrà  (nel caso, forse a gennaio), se il grande rischio preso da Papandreou farà  crollare il governo e provocherà  le elezioni oppure se si andrà  verso un governo di emergenza nazionale. Per ora, la disperazione di Papandreou contagia l’intera Europa.


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