Dalle borgate alle boutique i nuovi signori del pizzo all’assalto di Roma
«Le telefonate sono iniziate un mese dopo l’ultimo furto nel mio negozio». Ernesto è seduto su uno sgabello nel retro della sua bottega di ottica, quartiere Centocelle. Le estorsioni cominciano sempre così, con un telefono che squilla.
«Le telefonate sono iniziate un mese dopo l’ultimo furto nel mio negozio». Ernesto è seduto su uno sgabello nel retro della sua bottega di ottica, quartiere Centocelle. Le estorsioni cominciano sempre così, con un telefono che squilla. All’ora di pranzo, alla chiusura del negozio, nel cuore della notte. «La voce dall’altra parte aveva un accento napoletano. Un uomo mi ordinava di dargli subito 20 mila euro e poi duemila euro al mese altrimenti, dopo i furti, mi avrebbe bruciato anche il magazzino». Minacce e una lezione di vita su come si sta al mondo, nelle borgate di Roma. «Mi diceva: “Ma tu credi ancora alla legge? Qui la giustizia ce la facciamo da soli. Lo Stato non c’è. Se chiami gli sbirri, facciamo del male alla tua bella figlia”».
A Ernesto, 64 anni, quaranta dei quali passati dietro un bancone, ancora si chiude la gola, mentre ricorda ciò che sta provando a dimenticare. La sua storia di vittima del racket. Già , il racket, la bustarella da pagare per non avere grane, il pizzo. Fenomeno criminale erroneamente confinato soltanto nel sud Italia, ma che negli ultimi tre-quattro anni ha trovato terreno fertile anche a Roma. Causa e conseguenza di una malavita emergente, che versa sangue nelle strade, animatrice della più cruenta lotta per il controllo della città dai tempi della Banda della Magliana. La storia di Ernesto inizia con due furti da 170 mila euro e continua con 7 mesi di minacce. Fino a quando, a febbraio di quest’anno, trova il coraggio di denunciare. La polizia arresta due persone, che non erano di Napoli, ma facevano parte di una banda di criminali romani. Ai cronisti che gli chiedono se ha mai pagato il pizzo, Ernesto risponde soltanto: «L’incubo è finito, ne sono fuori». Un incubo in cui, nel silenzio dell’omertà e della paura, sono sprofondati centinaia di commercianti e imprenditori. Estorsioni che nascono nell’humus delle borgate di periferia e si allungano fino ai salotti buoni del centro, vicino ai palazzi del potere. E non sempre il racket “alla romana” significa richiesta di denaro. C’è il pizzo delle forniture e c’è il “pizzo della guardiania”, ci sono percentuali da dare alle mafie per lavori pubblici nell’edilizia e ci sono “favori” da fare, come tenere macchinette di videopoker illegali nel proprio bar. Milioni e milioni di euro. Ma quanti sono i commercianti che pagano il pizzo? E quali sono le zone di Roma più a rischio?
GLI AFFARI DEL RACKET
Al 31 agosto scorso, le denunce di casi di estorsione dall’inizio dell’anno erano già arrivate a quota 283. Nel 2010 sono state 363, qualcosa di più rispetto al dato del 2009. Lenta ma costante crescita. Quasi la metà (il 45 per cento) arriva dal quadrante periferico di Roma sud-est. A Centocelle soprattutto, quartiere dove non esiste operazione illegale che non abbia l’avallo del potente clan locale dei Casamonica. E nella zona di Ostia, dove a dettare le regole del potere criminale sono ancora i nove fratelli del clan Fasciani, sparpagliati nelle carceri di mezza Italia (con accuse che vanno dall’usura al traffico internazionale di stupefacenti) o latitanti all’estero. Il 20 per cento delle estorsioni si registra nella zona di Primavalle, borgata storicamente dominata dalla criminalità di destra, dove Danilo Abbruciati, “il Camaleonte”, uno dei boss storici della Magliana, costruì il suo regno dello spaccio e dove, ancora oggi, si muore in strada. Simone Colaneri viene freddato proprio da quelle parti il 28 luglio scorso, da una raffica di proiettili calibro 12 poche ore dopo aver schiaffeggiato il figlio di un boss della zona. L’omicidio numero ventotto dall’inizio dell’anno, a Roma. Il 15 per cento delle estorsioni denunciate, infine, è in centro dove regna una “pax romana” tra le grosse organizzazioni mafiose che adesso rischia di saltare.
Denunce che si accompagnano a segnalazioni di incendi dolosi e danneggiamenti ai negozi, segnali inequivocabili di intimidazioni e richieste di pizzo. Erano 390 i casi l’anno passato, 282 nei primi nove mesi del 2011. «Ma la dimensione reale del fenomeno sfugge a queste statistiche – spiega Maurizio De Lucia, vice procuratore nazionale Antimafia – a Roma come a Milano le persone che trovano il coraggio di rivolgersi alla polizia sono ancora troppo poche, non si riescono a fare stime complessive. Intendiamoci, il racket a Roma non ha i connotati del pizzo mafioso, così come si è evoluto nelle piazze di Palermo o Napoli. Lì è sistematico, proporzionale al reddito, perdura nel tempo e ha una valenza “politica”, tende cioè a stabilire rapporti di subordinazione nel territorio. A Roma è diverso, è ancora estorsione “predatoria”. La criminalità organizzata autoctona, parliamo di decine di piccole bande di 5-10 soggetti, ha bisogno di denaro, estorce alle vittime grosse somme, mettendo però in ginocchio gli affari dell’attività colpita. La storia di Ernesto racconta esattamente questo».
estorsioni predatorie
Estorsioni predatorie, dunque. Non come a Palermo, dove in media si pagano 500 euro al mese o in occasioni prestabilite (Natale, Pasqua e Ferragosto). A Roma si arrivano a chiedere 2 mila euro ogni mese a un ottico di Centocelle. Portandolo, a lungo andare, alla rovina certa. Il sindacato di Polizia Silp Cgil ha fatto una ricerca, sulla base delle ultime analisi della Questura di Roma. Risulta che mediamente alle vittime vengono estorti dai 700 ai 2000 euro al mese. Il giro d’affari del racket romano, calcolato solo sui casi denunciati nel 2010 al Dipartimento di Pubblica Sicurezza, si può quantificare intorno ai 6 milioni e mezzo di euro. La punta di un grosso e ancora nascosto iceberg. «A Centocelle-Tuscolano pagano quasi tutti – sostiene Gianni Ciotti, segretario provinciale del Silp Cgil Roma – a Primavalle lo stesso, solo che pochi denunciano. C’è troppa paura e poca conoscenza di certe dinamiche criminali. A volte gli estorsori al telefono dicono di stare con “i calabresi”, o con i Casalesi, per incutere più paura. Ma i legami dei gruppi romani con le mafie tradizionali sono ancora fumosi e poco chiari. Il Dipartimento di Pubblica sicurezza, poi, non diffonde i dati reali per non generare senso di insicurezza. Ad esempio, ci risulta che la denuncia di Ernesto non sia stata registrata nelle statistiche. Quanti altri Ernesto si vuole tenere nascosti?».
A volte i soldi non bastano nemmeno. Chi estorce si prende tutta l’azienda. «Assunsi quei due signori di Caserta in un momento di difficoltà – racconta Carlo F., 55 anni, piccolo imprenditore di Acilia a cui è stata portata via la ditta di trasporti con le minacce – mi ero indebitato con le banche e queste due persone mi prospettarono nuovi contratti e commesse grazie al loro giro di conoscenze. Siamo andati anche in vacanza insieme con le nostre famiglie, avevo investito 80 mila euro nei loro progetti». Poi un giorno i predatori si sono tolti la maschera da “angeli custodi”, rivelandosi per quello che erano. «Hanno cominciato a dirmi che il loro referente di Caserta, un camorrista, voleva soldi». E poi sono cominciate le allusioni minacciose alla sua famiglia. Per evitare il peggio, alla fine Carlo ha ceduto loto tutta l’azienda. Ma chi c’è dietro al racket a Roma? C’è un legame con la guerra tra bande in corso da mesi?
cosi crescono le bande romane
Le estorsioni sono il bancomat delle piccole bande romane. Nel 2010 108 persone sono finite in carcere per questo tipo di reato, al 31 agosto del 2011 gli arresti erano già 86. «Tutti pesci piccoli – spiega Ciotti – pagati pochi euro per appiccare incendi o spaccare vetrate. A volte non sanno nemmeno per chi stanno lavorando». Il denaro estorto ai commercianti diventa il biglietto da visita delle gang nascenti per accreditarsi con la malavita più strutturata, nella speranza di diventare il referente romano di ‘ndrangheta e camorra. Soprattutto per lo spaccio di droga.
Dalla metà del 2009 si è infatti creato un vuoto di potere sulle piazze della periferia di Roma. Gli equilibri di mala si sono rotti grazie a due maxi operazioni dei carabinieri del Ros, entrambe nel quadrante est della città . Prima l’operazione “Orchidea”, che ha colpito il clan camorrista dei Senese. Poi quest’anno l’operazione “Orfeo” ha portato in carcere i 38 componenti della banda locale, guidata dal giovane boss Giuseppe Molisso, di 29 anni. Non c’era partita di droga, da Cinecittà al Laurentino, che non passasse per le sue mani. Stroncata l’egemonia Senese-Molisso, le bande di pregiudicati di piccolo e medio calibro hanno iniziato una guerra senza regole.
Gambizzazioni, avvertimenti, omicidi. Ventotto quelli avvenuti a Roma dall’inizio dell’anno, almeno 7 dei quali legati alla guerra in corso che ricorda gli esordi della Banda della Magliana. «Assistiamo a una sorta di selezione competitiva tra gruppetti – dice De Lucia – il più forte elimina il più debole e aumenta di “prestigio”. Le estorsioni contribuiscono alla crescita di una banda. Non ce n’è una dominante. Non ancora. Il timore è appunto rivivere una dinamica simile a quella che portò al dominio della Banda della Magliana». Questo succede per le strade, nelle borgate, a livello base. Su un piano più alto ‘ndrangheta, camorra e mafia continuano a rifornire Roma di droga, riciclano con bar e ristoranti, diffondono il gioco illegale. Che ruolo hanno le mafie tradizionali, in quali settori concentrano i loro interessi?
dalle forniture alla guardiana
Le mafie a Roma lavorano nell’ombra. Si fanno sentire, e molto, nel campo delle forniture. Impongono a centinaia di commercianti di comprare certi prodotti, pagandoli il triplo del prezzo di mercato. Le mozzarelle di un’azienda di Caserta, ad esempio. Una certa marca di amaro prodotto al sud, diffusissimo sulle tavole dei ristoranti romani. I pomodori pachino di una particolare marca, la frutta di un’altra, il caffè. Merce da piazzare perché prodotta da loro affiliati. «Sono stato obbligato per anni a rifornirmi dalle stesse ditte al mercato di Fondi – racconta Enzo, 53 anni, ex proprietario di uno stabilimento balneare di Ostia – la lista degli “amici” mi era stata imposta da un ragazzo che avevo assunto, giovanissimo, di appena 27 anni». Un “insospettabile”, insomma. Rimasto tale fino a quella mattina, una settimana dopo l’assunzione, in cui ha mostrato a Enzo un coltello. «Mi fece un paio di nomi di suoi referenti, sgherri di una banda del posto. Ma i nomi delle ditte da cui dovevo rifornirmi arrivavano dall’alto, da qualcuno legato ai Casalesi». Una storia conclusa nel 2009, quando Enzo si è rivolto a uno dei sette sportelli della rete antiracket Agisa.
«Anche questo è pizzo – spiega Lino Busà , presidente di Sos Impresa, organismo anti-estorsioni legato a Confesercenti – non si può quantificare, ma esiste. Così come esiste un fenomeno, diffuso sul litorale romano e nelle strade chic del centro come Via Veneto, di racket della guardiania». Accade questo. A locali, discoteche e bar viene imposta la security con un metodo molto “naturale”. Nel night dove non ci sono buttafuori si fanno scoppiare continue risse. Si assoldano gruppi di extracomunitari che, per una manciata di euro, se le danno in mezzo alla pista, scatenando un fuggi fuggi generale della clientela. Dopo il terzo episodio, in genere, arriva una telefonata al proprietario di questo tenore: «Se non vuoi più casini nel tuo locale, ti conviene prendere vigilantes con gli attributi». Buttafuori privati, pagati il doppio e quasi tutti con l’inconfondibile accento del sud. Ed ecco infine che, dal pizzo della guardiania si arriva all’ultima forma di estorsione: l’assunzione di commesse “raccomandate” e imposte dalla malavita organizzata. Proprio come l’acquisto della merce. Uno scambio che non impegna a pagare il pizzo mensilmente, ma che serve a sistemare amici e figli di amici. «Basta fare una passeggiata tra i negozi e le boutique delle strade del centro – ha concluso il segretario provinciale Ciotti – per accorgersi che quasi tutte le commesse parlano o siciliano o campano. Tante sono regolari, naturalmente. Alcune dicono di essere studentesse fuori sede venute a studiare a Roma. Ma se aspetti l’orario di chiusura, le vedi salire su macchine costosissime e lussuose, in compagnia di pregiudicati». Il “racket delle commesse”, così lo chiamano gli investigatori.
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