Crisi, quasi 9mila imprese fallite nel 2011
MILANO – Lo scontrino della crisi nel 2011 fa registrare circa 9mila imprese fallite in nove mesi. Come dire: quasi mille al mese, poco più di 30 ogni giorno. Parlare di doppia spirale recessiva, dopo il biennio post-Lehman, sembra non più temerario (d’altronde anche la prima azione di Draghi alla Bce con l’abbassamento dei tassi di interesse interbancari di 25 punti base avvalora l’ipotesi di una “lieve recessione” in atto). Con l’inevitabile conseguenza dell’avvio di procedure di cassa integrazione per i dipendenti e l’aumento degli “incagli” e degli insoluti per le banche, che non vedono più restituirsi il denaro prestato. Senza contare il montante delle imprese in concordato preventivo, l’ultima ratio prima del default vero e proprio.
LO STUDIO – Scrive Crisis D&B, la società del gruppo Crif specializzata nelle informazioni di carattere creditizio, che da gennaio a settembre 2011 sono state 8.566 le imprese che hanno portato i libri in tribunale, perché impossibilitate a pagare fornitori e dipendenti. Un aumento dell’8,7% rispetto allo stesso periodo del 2010, persino del 35,5% rispetto al 2009, quando la crisi sembrava aver toccato il suo apice. E non sorprende che a pagare il conto maggiore sia stata la Lombardia (1.872 procedure concorsuali), la cui vocazione imprenditoriale non ha eguali nel Paese ed è quindi quella deputata a soffrire di più in caso di avvitamento dell’economia. La seguono Lazio e Veneto con circa la metà dei casi, una principalmente orientata al mercato dei servizi, l’altra incentrata sulle pmi e sul manifatturiero.
LE CAUSE – Dice Marco Preti, amministratore delegato di Crisis D&B, che il problema è anche di ordine culturale e riguarda una non adeguata strutturazione delle imprese sul fronte del risk management: «Sta diventando fondamentale – dice – che le imprese adottino efficaci politiche di gestione del rischio, consentendo loro di conoscere in maniera più approfondita i partner con i quali instaurano rapporti commerciali». Certo, spesso, l’affidabilità creditizia dei potenziali clienti dovrebbe essere accertata (per esempio la pubblica amministrazione locale e centrale) eppure è proprio qui che si gioca molta della competitività del sistema-Paese. È sul terreno della puntualità dei pagamenti (ormai dilatati anche tra privati e privati, per effetto di un perverso meccanismo di posticipazione dei crediti che ritarda anche l’ipotesi di investimenti in ricerca e sviluppo da parte delle imprese) che si può almeno limitare un conto così amaro alla cassa.
I SETTORI – A soffrire di più il comparto della costruzione di edifici (più di mille aziende edili hanno dichiarato default nel 2011). Non fa più da traino, evidentemente, anche tutto il mercato del sub-appalto. Non riducono l’entità dello smottamento neanche gli interventi di riqualificazione energetica degli edifici (che pur avevano attenuato la perdita di utili derivante dalla asfittica domanda di nuove abitazioni per colpa di un potere d’acquisto sempre minore da parte delle famiglie). Rimasto ai margini il piano-Casa presentato più volte dal governo per renderlo più appetibile, è forse giunta l’ora di interrogarsi su politiche di social housing capaci di far da volano al settore?
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