Countdown Obama

by Sergio Segio | 7 Novembre 2011 7:45

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WASHINGTON. Sembrò l’avvento di una Nuova Era, ma di quel tempo che pareva infinito non rimane che un anno. Barack Hussein Obama è oggi il più celebre “precario” del mondo con un contratto in scadenza fra un anno esatto, martedì 6 novembre 2012 e scarse probabilità  di riassunzione.
L’Obama che abbiamo visto lavorare, ondeggiare ed esitare come presidente degli Stati Uniti dal 21 gennaio di tre anni or sono non sarà  rieletto, neppure di fronte ad avversari repubblicani che si annunciano tutti assai mediocri. L’uomo che ha voluto essere tutti, un giorno un po’ Kennedy e un altro po’ Bush, in un discorso un po’ Reagan e in un altro un po’ Clinton, che per più di mille giorni ha cercato il proprio personaggio senza mai riuscire a trovarlo, deve, nei 365 giorni che gli rimangono prima del voto finalmente uscire dal bozzolo di incertezza nel quale si è chiuso e maturare. Come in un antico, e già  popolarissimo show televisivo americano, la domanda che il suo elettorato confuso, indifferente e disamorato si pone per mobilitarsi ancora è: vuole per cortesia il vero Barack Obama alzarsi? Si possono studiare e ristudiare tutti i numeri che l’economia, la statistica, la demografia propongono e arrivare alla inevitabile conclusione che Obama sarà  il presidente di una sola stagione, atteso dalla sorte di predecessori effimeri come Gerald Ford, Jimmy Carter o George Bush il Vecchio. Tutti puntano alla sua sconfitta: gli indici di approvazione e di popolarità , che galleggiano a fatica sopra il 40%, il disamore della sua base di consenso, che vede persino i brothers, gli americani di colore come lui in crisi, il macigno di quel 9% di disoccupazione.
Infine, il disastro continuo del mercato reale che più di ogni altro pesa nella vita quotidiana degli americani, e che non è Wall Street, ma è quello immobiliare.
Per colmo di umiliazione, buona parte anche della incertezza economica e finanziaria dipende da altri, dall’Asia e dalle convulsioni dell’Europa, in una perdita di sovranità  che per l’orgoglio americano è devastante.
Neppure la ancora marginale, ma accanita protesta degli “Occupy”, degli indignati americani vede in lui la propria bussola, anche se Obama ha tentato di appropriarsene. Ma non saranno i dimostranti a salvarlo o condannarlo, né i suoi giustizieri saranno i fanatici della destra che lo hanno paralizzato in Parlamento. Sarà  la domanda terribile che Reagan usò come uno stiletto contro Jimmy Carter nel 1980: «State meglio ora rispetto a quattro anni or sono?». Il 70% degli americani risponde: no.
Mai un presidente con i “numeri negativi” di Obama è stato rieletto. Neppure le guerre, che ancora quattro anni or sono erano l’incubo dominante, oggi smuovono più emozioni e dunque voti. L’esecuzione di Osama Bin Laden è passata come un brivido di vendetta fugace. La deposizione e la fine violenta di Gheddafi, alla quale, dietro la facciata anglo-francese, tanto ha contribuito, non hanno fatto registrare nulla nei sismografi della popolarità . L’Iraq è storia di ieri. L’Afghanistan è storia da pagine interne. Neppure i repubblicani riagitano più gli stracci della «minaccia islamica» e dello «scontro di civiltà ». E quando la politica internazionale, gli “esteri”, perdono la valenza minacciosa, che si tratti di dittatori fascisti in armi, di “rossi”, di “jihadisti” non spostano voti nelle grandi elezioni nazionali.
Il bravissimo sondaggista Nate Silver in un lungo studio pubblicato dal New York Times prova le permutazioni contro i possibili avversari e la conclusione è sempre la stessa: in questo quadro economico, non ce la può fare e non sono gli avversari a sconfiggerlo. Il vero nemico di Barack Obama non siano neppure i dati macroenomici o la furia, già  molto rientrata, degli estremisti della destra anti-governo e anti-tasse, gli agitati del Tea Party. Il nemico di Obama è lui stesso.
Sono molte, e grandi, le colpe che un elettorato, e in particolare quello americano, può perdonare al proprio “Commander in Chief”. Ai presidenti che furono rieletti, ai Nixon, ai Reagan, ai Clinton, ai Bush (il Giovane) furono perdonati errori, peccati, limiti, follie e incompetenze anche gravi. Ma c’è una colpa che non viene mai perdonata ed è quella di apparire indecisive, che significa molto più dell’italiano «indeciso». E’ sempre preferibile un capo dello stato e del governo che sbaglia con decisione a un presidente zelighiano che crei la sensazione di non sapere chi sia e che cosa debba fare. Lo aveva ben capito George W Bush, con il proprio istinto politico, quando aveva ripetuto come un mantra di essere lui, e nessun altro, «the decider», quello che alla fine decide e basta.
Non potrebbe essere diversamente in un sistema nazione dove il primo cittadino è il depositario dell’identità  nazionale e il titolare del bully pulpit, come lo definì Theodore Roosevelt, del podio dal quale gridare e predicare ai fedeli. E se l’elettorato, i cittadini avvertono, con la sensibilità  infallibile del branco, che il lupo alfa ha un “soft core”, un nocciolo molle, la tendenza implacabilmente darwiniana è quella di sbranarlo e sostituirlo. «La debolezza di Obama – ha spiegato James Carville che fu la “mente” delle campagne di Clinton – è stata di essere accomodante quando sarebbe dovuto essere intransigente e di essere intransigente quando era il momento di essere accomodante». L’arte di governare, scriveva l’inventore del mito kennedyano, lo storico Arthur Schlesinger, consiste nello scendere ai continui compromessi necessari in ogni democrazia creando l’impressione di non rinunciare mai ai propri principi.
Trascuriamo dunque, per il momento, i presagi infausti che l’economia e i sondaggi offrono per Barack Obama, il sapore amarissimo che la mezza riforma della sanità , troppo rivoluzionaria per la destra, troppo timida per la sinistra ha lasciato. E ignoriamo l’inconsistenza del campo avversario, in attesa di sapere quale nome uscirà  dalla zuffa dei mediocri, tra il banale e riciclato Mitt Romney, il piacente e vacuo governatore del Texas Perry, l’improbabile ex re della pizza, l’afro americano Caine invischiato ora in un vecchio caso di molestie sessuali. Se ancora i bookmakers più accreditati, come la casa Ladbrokes di Londra, indicano in Obama il favorito per il 6 novembre 2012 (è dato alla pari, con il secondo, Romney, che paga due contro uno) è perché si stenta a credere che in quest’ultimo anno Obama non riesca a ritrovare quell’uomo che in un altro giorno di novembre, il 7 del 2007, seppe infiammare il pubblico e lanciarsi verso un sorpasso impossibile della supercorazzata Hillary Clinton fra i democratici. Nel pessimismo che avvolge anche il campo obamiano, a tratti quasi rassegnazione, si dimentica che se fosse rieletto sarebbe certo un miracolo, ma sarebbe il secondo miracolo. Nessuno, quattro anni or sono, lo vedeva alla Casa Bianca.
Il presidente non potrà  fare molto per riavviare la macchina ancora formidabile ma inceppata dell’economia americana. La grande trasfusione di liquidità  a credito che ha pompato più di mille miliardi di dollari secondo la formula keynesiana del “deficit spending” ha salvato le banche e le finanziarie senza davvero introdurre nuove e più austere norme, ha rassicurato il famigerato “1 per cento” senza fare molto per quel “99 per cento” che oggi gli indignati dicono di rappresentare. Può invece fare molto per se stesso, per ritrovare quel sense of purpose, quella ragione di essere paralizzata in tre anni dal bisogno inconscio di farsi accettare da tutti, lui tanto, per molti troppo, diverso e alieno. Se la ritroverà , Obama il precario sarà  il successore di se stesso, nonostante i pessimi auspici. Ma dovrà  convincerla di essere changed, di avere cambiato lui, di essere un “nuovo Obama”.

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