COSàŒ TRAMONTA UN REGIME

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“Muore ignominiosamente la Repubblica” scriveva il poeta Mario Luzi alla fine degli anni settanta: allora la tragedia investiva per intero il Paese e il ceto politico, oggi il centrodestra è in gran parte approdato alla farsa. Ad una dissoluzione senza nobiltà .
All’indomani del 25 luglio del 1943 fra i tanti fedelissimi di Mussolini vi fu un solo caso drammatico, il suicidio per coerenza estrema di Manlio Morgagni, presidente dell’agenzia giornalistica di regime: “Il Duce non c’è più, la mia vita non ha più scopo”, lasciò scritto. Le cronache di questi giorni ci danno, fortunatamente, una tranquilla sicurezza: Morgagni non corre proprio il rischio di avere degli imitatori, neppure incruenti, anche se la paura del suicidio (con riferimento solo alla carriera, naturalmente) è stato l’argomento più evocato nelle dichiarazioni. E con buona pace della giovane deputata del Pdl che ha assunto come suo modello Claretta Petacci.
Non si leggano però solo come farsa le cronache dei giorni scorsi, il ricomparire di transfughi o ex transfughi. C’è in realtà  poco da sorridere: ci sono i sintomi di una tragedia nelle private disinvolture e vergogne che molte microscopiche vicende ci raccontano (o ci hanno raccontato nei mesi passati, con segno rovesciato). E che Cirino Pomicino sia fra gli affossatori della “seconda repubblica” è il più malinconico epitaffio sia della “prima” che della “seconda”.
Sono una cosa terribilmente seria le crisi di regime. Coinvolgono nel loro insieme le istituzioni e il Paese, e conviene prender avvio dalle domande più immediate: perché questo ceto politico è riuscito a imporsi sin qui, a occupare così a lungo la scena? La legge elettorale lo spiega solo in parte, e ripropone in altre forme la stessa domanda: perché il centrodestra ha potuto riempire le sue liste di figure di questo tipo senza pagare dazio? Perché nel crollo della “prima Repubblica” è stata solo o prevalentemente questa “società  incivile” ad invadere le istituzioni e non hanno trovato spazio voci diverse, espressione di un opposto modo di intendere la politica e il rapporto fra privato e pubblico?
Non ci si fermi però a queste prime e più immediate domande: quando tramonta un regime è necessario un esame di coscienza più profondo. Nel crollo della “prima repubblica” esso fu eluso addossando ogni colpa a un ceto politico corrotto, contrapposto a una società  civile incontaminata: le conseguenze dell’abbaglio si videro presto ed oggi nessuno può affidarsi a quel mito. Nel dicembre del 1994, nell’imminente crisi del primo governo del Cavaliere, Sandro Viola scriveva su questo giornale: “quando Berlusconi prima o poi cadrà , sul Paese non sorgerà  un’alba radiosa. Vi stagneranno invece i fumi tossici, i miasmi del degrado politico di questi mesi”. I mesi sono diventati anni, quasi un ventennio, e il degrado ha superato da tempo i livelli di guardia. Con una sfiducia nella democrazia ormai dilagante, e con conseguenze pesantissime nell’insieme della società .
Poco meno di un anno fa il rapporto del Censis sul 2010 ha disegnato il quadro di un’Italia sfiduciata, percorsa da una diffusa sensazione di fragilità  individuale e collettiva. Incapace di vedere un approdo, una direzione di marcia. Un’Italia “senza più legge né desiderio”: ma tornare a “desiderare”, a sperare, è la virtù civile necessaria per rimetter in moto la società . E per andare in questa direzione, concludeva il Censis, è necessario ridare centralità  e prestigio alle leggi e alle regole. Quel rapporto segnalava anche un dato drammatico, che fu colpevolmente rimosso dall’agenda politica: gli oltre due milioni di giovani che non studiavano e non avevano lavoro né lo cercavano. Resi sempre più sfiduciati e apatici dal diffuso trionfare dei “furbetti” e delle corporazioni. Tramontate da tempo le disastrose illusioni del berlusconismo, affermava allora Giuseppe De Rita, un leader vero dovrebbe ridare in primo luogo agli italiani il senso delle loro responsabilità .
Da qui occorre ripartire, da quella “ricostruzione etica” evocata domenica da Eugenio Scalfari: una più generale ricostruzione che riguarda l’intero Paese ma che nella politica deve trovare riferimento e incentivo. Anche per questo un governo di civil servants sarebbe oggi fortemente auspicabile, segno di un’inversione di tendenza cui chiamare il Paese.


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