Così il male oscuro governa l’Occidente

by Sergio Segio | 6 Novembre 2011 8:12

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Lucrezio, gran depresso di Roma cesariana, parlando dell’amore, traccia il profilo del manifestarsi di una crisi depressiva: surgit amari aliquid quae in ipsis floribus angat («qualcosa di amaro che, sorgendo, anche nei momenti di più intensa felicità  ci tortura»).
La depressione è un fungo velenoso che spunta dove e quando vuole, quando non s’installa stabilmente e ti imprigiona in qualche psicofarmaco che a poco a poco dissolve la sensibilità , l’emotività , la compassione per gli altri, fino alla percezione dell’appartenenza alla specie umana e al destino comune. E ormai è pandemica; è, più del tumore, male (mal-di-essere) di tutto l’universo civilizzato, con punte specifiche in Europa occidentale e Stati Uniti.
Dicendo psiche, psicosomatica, psicoterapia, non andiamo molto in là  nell’analizzarla: perché cosa sia realmente psiche, e nei moderni linguaggi fin dove ne arrivi il senso, è questione filosofica da collocare in testa. Si sa quale ne sia il nutrimento: vive di pane di pensieri dalle innumerevoli cotture. Si sa che, termine greco, anima non le corrisponde. Nel monismo ebraico, nèfesh è insieme la gola che respira e l’intero aggregato del corpo con i suoi spazi non visibili indecifrati. In Essere e Tempo, Heidegger si avvicina involontariamente al monismo psichico greco e semitico facendone designare tutto l’esistere dell’esistente pensante. Per me psiche resta enigma. Il male psichico oggi detto depressione è giustamente chiamato, dopo il libro di Giuseppe Berto, il male oscuro. Orba com’è, l’ossessione economica non sa vedere in se stessa, e nei problemi che è impotente ad affrontare, il distillato di veleno del Male Oscuro. Neppure gli riesce di vedere il parallelismo e il coincidere di depressione economica e di depressione psichica. E non è un caso certamente che nei poteri economici e della politica economica abbondino i depressi psichici, esistenze fortemente perturbate e dall’equilibrio fragile. Il mondo è dunque governato da depressi, dalle valutazioni errate per uso di antidepressivi e psicofarmaci. Fate un’inchiesta al di là  delle formule e vedrete.
Io posso definirmi un depresso a ore. La peggiore di tutte è per me quella della siesta, nel primo pomeriggio, e dai suoi artigli d’avvoltoio non avrei scampo senza un impegno di compagnia in serata che fracassasse per un’ora o due la mia insolubile solitudine di vecchio in eccesso. Posso dire di avere verso questo tipo di solitudini una solidarietà  e una comprensione illimitate. Là , tutte le cosiddette «rassegnazioni» mi accentuano la depressione, con una forte pepatura di furore. Chi si rassegna è perduto. Te lo immagini un Baudelaire rassegnato? Un condannato americano che abbandona la lotta per la grazia? Che cosa dice Rimbaud? «Il combattimento spirituale è altrettanto brutale della battaglia d’uomini»; soltanto la rivolta, non la rassegnazione, apre spiragli di speranza. Perché l’uomo è fatto per l’azione; c’è azione anche nella meditazione, nella preghiera, nel mantra propiziatorio. Ma il fine (se mai ne abbia uno) della depressione è di avvilupparti d’inazione, di procurarti una implacabile nausea verso qualsiasi fuga nell’azione. Il cafard atroce dei legionari stranieri era il flagello della vita di guarnigione a Sidi-bel-Abbés: i rischi mortali della guerra erano porto agognato. Però i vecchi nelle solitudini delle case di riposo non hanno che gli ignobili svaghi della televisione, seminatrice di solitudine, in una incessante ripetizione ipnotica. Mi fa rabbrividire «l’ora di socialità » per vecchi, malati, detenuti: là  è di casa, per chi sia lucido, una marea nera di depressioni silenziose.
Latino mio, chi ti capisce più, qui, Paese delle romanze? Perché credo che a designare latinamente la depressione valga il termine Cura. Un verso di Valerio Marziale dice: Non venit ad duros pallida Cura toros. Nessuna epoca ne fu risparmiata, Psiche era forse già  ferita prima del Big Bang. Traduco: «La smorta Cura non viene ai giacigli duri». Abbiamo materassi meravigliosamente duri, eppure quella Entità  di pallore ci perseguita anche là . Bisogna, per schivarla, dedicarsi ai lavori agricoli e spenderci molto, molto sudore. Guarda le due figure dell’Angelus di Franà§ois Millet, che benedice dopo una giornata su un campo di patate la campana della sera: puoi essere certo che a quella brava giovane coppia la Cura non verrà  mai. Ma a un convegno di circa cinquecento giovani Carlo Petrini, ponendo la domanda: «Chi di voi sarebbe disposto a dedicarsi ai lavori agricoli?», ebbe in risposta due alzate di mano. Tutti gli altri, prima o poi, saranno inghiottiti dai farmaci: la pallida Cura è piena di zelo per le professioni puramente intellettuali, di laboratorio, di computer.
Mi sono affrettato a comprare (io credo disperatamente, ancora, alla funzione salvifica del Libro) Uscire dalla depressione del medico scrittore Rà¼diger Dahlke, di medicina psicosomatica e sociale, nei cui libri, tradotti e notissimi anche in Italia, sempre si trovano illuminazione e consolazione. (Naturalmente i nostri medici di questo loro geniale collega tedesco non vogliono saper nulla). Il bravo Rà¼diger è bravissimo nella descrizione delle cause che hanno reso pandemica la depressione, ma non arrischia a dirci come una terapia adeguata possa farne uscire. Addita, nel riepilogo, una palingenesi del pensare che ribalterebbe totalmente le modalità  inflessibili del vivere d’oggi che producono Male Oscuro. La via si può (forse) trovare nel rigenerarsi spiritualmente: uscire dal mondo da vivi, per uscire realmente dalla depressione. Ma è un cammino che non si può fare da soli: servono i ritiri, i gruppi religiosi (non certo le famiglie), la vita comunitaria. Molti si abbandonano alle sette, a nuovi culti. Il bisogno di veri maestri, addirittura di incarnazioni divine, è a dismisura cresciuto. Perché qualsiasi cosa è preferibile all’esperienza infernale della depressione, che è di morte senza annullamento, senza un oltre. Altro che politica e servizi sociali! Qua tocchiamo e varchiamo soglie di Ignoto paragonabile a un’agonia stellare! Governi e medici ordinari riescono più facilmente ad assassinare Psiche, la verità  che si nasconde, che a medicarla.
Questa mia carrellata è talmente insufficiente che quasi me ne vergogno. Ma voglio indicare, oltre ai libri del dottor Dahlke, un testo sacro che resta per me, fin dagli anni di giovinezza, di tutte le Scritture sacre la più vera, e il più San Giorgio per decapitare le illusioni false e le cause delle depressioni. Perché nulla resiste al potere di vincere il male e sciogliere i nodi che angariano l’anima con più forza di parola della Bhagavad Gita, rivelazione dell’India. Ce ne sono in italiano decine di edizioni: posso consigliare l’Adelphi, quella col commento esoterico di Raphael, l’economica Feltrinelli, specialmente di non accontentarsi di una sola, perché un testo in sanscrito risente sempre dell’interpretazione del traduttore e ancor più del commento che ne viene fatto. Utili anche i confronti con versioni in francese e in inglese, numerosissime come pannocchie di granturco. Ma credo in tutte sia tradotta allo stesso modo l’esortazione di Krishna (avatar di Vishnù) al guerriero perplesso Arjuna: «Va e combatti!» e la promessa essenziale del dio: «Chi pensa a me nell’ultimo istante verrà  a me, non dubitare di questo».

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