Corsi deviati e lavori mai fatti e i torrenti sono bombe a orologeria

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ROMA – «La verità  è che non ci sono nastri da tagliare né cerimonie da presenziare quando si costruisce un invaso di trattenimento dell’acqua». La spiegazione del perché nel 2011 un nubifragio, violento ma annunciato, riesca a mettere in ginocchio una città  intera, con torrenti che straripano e persone che muoiono, è anche nelle parole amare del decano dei professori di sicurezza idraulica, Luigi D’Alpaos, ordinario all’università  di Padova. Dal 1966 studia le centinaia di alluvioni che hanno colpito l’Italia. «La politica, a tutti i livelli, non ha mai voluto imparare dai disastri del passato – dice – non finanzia la difesa del territorio perché non porta voti. È un problema culturale, e oggi anche economico». Cosa bisognerebbe fare, dunque?
Già  nel 2005 i Piani di assetto idrogeologico hanno elencato, regione per regione, gli interventi per ridurre la pericolosità  della rete fluviale italiana. Sono indicati centinaia di invasi di trattenuta temporanea dell’acqua da costruire a monte dei centri abitati, per controllare le piene e ridurre la velocità  dell’acqua. «Un invaso da 60 milioni di metri cubi – spiega D’Alpaos – risolverebbe ad esempio il problema delle piene per fiumi come il Piave e il Bacchiglione. Costa 150 milioni di euro». Nei Pai sono indicate le dighe di laminazione per controllare lo straripamento e le aree golenali da ripristinare spostando case e aziende. Una mappa fiume per fiume. In tutto servono 44 miliardi di euro. E quanto ha stanziato il ministero dell’Ambiente? I fondi straordinari per le opere di difesa del territorio – si legge in un dossier dell’Ance, l’associazione dei costruttori – ammontano sulla carta a 2 miliardi, tra Stato e Regioni. In realtà  nessun cantiere di quelli previsti è stato aperto. Sono stati erogati appena 300 milioni di euro, e solo per tamponare le emergenze dell’ultimo biennio.
Per la manutenzione dei corsi d’acqua (la pulizia degli alvei e il rimboschimento delle sponde, per aumentarne la solidità  e la capacità  drenante delle acque) va ancora peggio. I fondi ordinari assegnati dal ministero sono stati ridotti, negli ultimi 5 anni, dell’84%. Erano 550 milioni nel 2008, saranno 84 nel 2012. Briciole. «La manutenzione spetta agli enti locali – spiega l’ingegnere Paola Paglia, della Protezione Civile – senza l’aiuto dello Stato nessuna amministrazione riesce trovare risorse nel proprio bilancio per la cura dei canali».
L’Italia poi oggettivamente è un paese difficile. L’82 per cento dei comuni è ad “alta criticità  idrogeologica”, in Valle d’Aosta, Umbria, Molise e Basilicata lo sono tutti. Sono a rischio circa 3,5 milioni di italiani. «Nonostante ciò – dice Giorgio Zampetti di Legambiente – e nonostante nubifragi sempre più frequenti a causa dei cambiamenti climatici, le amministrazioni concedono permessi a costruire in aree vietate dai PAI, quelle ad alto rischio a ridosso dei fiumi. A volte anche sopra. A Reggio Calabria ci sono cantieri nella Fiumara dell’Annunziata, a Milano il Seveso è stato coperto da edifici e strade, a Genova c’è un palazzo che ha i pilastri portanti nell’alveo del torrente Chiaravagna».
Quando la piena arriva in città  come queste, sfondando gli stretti canali sotto le strade e le case, c’è poco da fare. «Bisognerebbe “stombare” i torrenti sotterranei come il Fereggiano a Genova – propone Zampetti – rimuovendo le coperture dove possibile, alzando ponti e gallerie, allontanando le strade dagli argini». Significa rivoltare l’assetto urbanistico della città . In casi di calamità , poi, dovrebbero scattare i piani di emergenza per l’evacuazione e la sicurezza dei cittadini. Il 70 per cento dei comuni italiani ne ha uno, ma solo nel 50 per cento dei casi è aggiornato a norma di legge. E sulla comunicazione ai cittadini c’è ancora molto da fare.


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