Come uscire da quarant’anni di liberismo?

by Sergio Segio | 5 Novembre 2011 8:00

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Riassumiamo. Due terzi della classe media sono precipitati nella penuria. La cassaforte dei valori e risparmi americani – cioè la casa – non vale più nulla. Le reti di sicurezza sociale sono erose, gli studenti escono dall’università  schiacciati dai debiti. Trenta milioni di americani sono senza lavoro o lavorano part-time. Quasi 6 milioni di posti di lavoro nelle manifatture negli Usa sono scomparsi dal 2000, e oltre 40mila fabbriche hanno chiuso. Gli afro-americani hanno subìto la più grande perdita di beni collettivi della loro storia. Gli ispanici hanno visto il valore delle loro reti crollare di due terzi. Milioni di bianchi sono stati spinti nella povertà  e disperazione.
E’ su questo terreno che è nato il movimento Occupy Wall Street, Ows. La sua forza sta nella semplicità  e verità  del suo messaggio fondamentale: pochi sono ricchi, molti sono poveri. Rispetto alle sue pretese, il capitalismo ha fallito.
Con tutta la sua verità  però, che capacità  di resistenza ha dimostrato finora il messaggio di Occupy Wall Street? In termini di potere repressivo, il sistema non ha fallito. A oggi il movimento Ows non ha neppure affrontato l’élite danarosa con una minaccia delle dimensioni delle proteste di Seattle nel 1999. Per il momento tutti amano questo movimento. Il Financial Times ha scritto un editoriale a suo favore. Ma alla fine, per riformare il capitale finanziario devi offendere le persone e istituzioni che lo rappresentano, incluso il Financial Times.
Tra le cronache quotidiane dai campi di battaglia del movimento Ows negli Stati uniti (Zuccotti Park a Manhattan, Oscar Grant Plaza a Oakland, e poi Austin, Chicago, Philadelphia, Atlanta, Nashville, Portland…), i miei occhi scorrono sul mappamondo fino alla Grecia. Ecco, penso, là  annusiamo una situazione pre-rivoluzionaria! Dev’essere il leninista che è in me, anche dopo anni di terapia. Sazio della gentilezza democratica del movimento Ows, tiro giù dallo scaffale le Tesi d’Aprile di Vladimir Illich, 1917: mettere fine alla guerra, confiscare le grandi proprietà  terriere, fondere tutte le banche in una sola banca nazionale… Mi brillano gli occhi. Ma poi sento i passi dimia figlia, allora rimetto Lenin al suo posto per tirare fuori E. F. Schumacher – anche se non sono sicuro che sia tra le letture preferite del movimento Ows, e neppure sui menu di Twitter.
Ora, prendiamo la storia della Grecia per come è evocata da una foto arrivata nella mia e-mail alla fine di ottobre: mostra gruppo di dimostranti di fronte al Partenone di Atene con uno striscione bianco a lettere rosse e nere, «Oki 1940-2011». In greco oki vuol dire no. Il «no» del 1940 è la risposta data il 28 ottobre all’ambasciatore d’Italia che trasmetteva la richiesta di Benito Mussolini alla Grecia di aprire le sue frontiere all’esercito italiano. Quel «no» ha segnato l’ingresso della Grecia nella seconda guerra mondiale. Cerimonie annuali commemorano quella risposta al fascismo.
Quest’anno però «le parate ufficiali sono state sopraffatte dai cittadini», dice la mail arrivata dalla Grecia, e in molte città  la folla ha cacciato via i rappresentanti del governo. A Salonicco «il presidente della Repubblica se ne è andato in protesta», abbandonando la parata militare per la prima volta nella Grecia del dopoguerra. Ad Atene, «la parata si è svolta “normalmente”, protetta da misure draconiane», molti studenti «hanno sfilato sventolando fazzoletti neri davanti alla ministra della pubblica istruzione». La mattina del 28 ottobre un gruppo di artisti e intellettuali sono riusciti a portare un grande striscione con scritto «oki» nell’Acropoli, nascosto sotto il soprabito di una nota attrice, «e siamo riusciti a dimostrare là  per oltre mezz’ora», anche perché «tutti i poliziotti erano a difendere la parata a Syntagma e altrove in Attica».
Dunque: oki nel 1940 a Mussolini. Oki nel 2011 ai banchieri che vogliono imporre il loro dominio sulle spalle dei greci, oki ai collaboratori locali di quei banchieri.
Verso la fine della seconda guerra mondiale, una nuova impresa di capitalisti occidentali (di cui abbiamo visto un nuovo capitolo nel recente colpo della Nato in Libia, consumato con grande distruzione e spargimento di sangue) ha compiuto la sua sortita inaugurale con l’attacco di Gran Bretagna e Usa in Grecia, nel 1943, con il tacito okay di Stalin. Nel 1949, alla fine di una terribile guerra civile, la sinistra era stata decimata, massacrata, imprigionata, costretta all’esilio – e si preparava una dittatura della destra.
Non ho dubbi che se la sinistra in Grecia riuscirà  oggi a sloggiare gli agenti politici delle banche internazionali non passerà  molto prima che la Nato intervenga, in modo coperto e poi aperto, con il solito arsenale di omicidi, droni e sostegno armato alle forze di sicurezza di turno.
Sessant’anni dopo la sconfitta di Hitler, quarant’anni dopo il contrattacco capitalista neoliberale negli anni ’70, il sistema è sotto forte pressione, ben rappresentata dalle manifestazioni di massa da Atene a Oakland.
Dopo aver assaggiato i manganelli e i lacrimogeni, i protagonisti del movimento Occupy Wall Street dovrebbero sapere che quando il capitale si sente con le spalle al muro reagisce, e non si fermerà  di fronte a nulla pur di schiacciare ogni forza che lo minacci. Allora i poliziotti smettono di sorridere. Il benevolo sindaco impone il coprifuoco. Sentenze «esemplari» sono appioppate a chi provoca disordini. Le prigioni si riempiono.
La repressione organizzata può essere sconfitta solo da una resistenza organizzata, in tutto il paese. Come organizzarla è la sfida più urgente per il movimento Ows. Mercoledì il movimento ha bloccato Oakland con uno sciopero generale: è l’inizio giusto.
* fondatore e co-direttore del sito CounterPunch, editorialista di The Nation

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