by Sergio Segio | 9 Novembre 2011 8:04
«Siamo servitori dello Stato, non complici dell’illegalità istituzionalizzata che si concretizza ogni giorno nelle carceri italiane». Stavolta a sollevare l’allarme su un sistema di giustizia penale adatto piuttosto a un Paese in via di sviluppo, e sulle «carceri che assomigliano sempre di più a favelas ingabbiate», sono addirittura gli stessi direttori e dirigenti dei nostri istituti penitenziari. Per la prima volta nella storia del sistema carcerario italiano l’appello a mobilitarsi «prima che sia troppo tardi» per una emergenza assoluta parte proprio da un loro sindacato, quello autonomo del Si.Di.Pe che raccoglie la maggior parte dei dirigenti penitenziari, circa 130 su 400.
E devono davvero aver perso la pazienza e la speranza proprio tutti, nelle carceri italiane, se a capitanare la «ribellione» dei direttori c’è una personalità come Enrico Sbriglia, il segretario nazionale del Si.Di.Pe., che oggi amministra il carcere di Trieste ma che per due mandati ha ricoperto il ruolo di assessore comunale alla sicurezza di An. Pentito? «No». Consapevole del dramma, semmai. Tanto consapevole che se si chiede a Sbriglia, attualmente coordinatore di Futuro e Libertà della provincia di Trieste, quali siano le leggi da cambiare immediatamente in quanto produttrici di insensate fattispecie di reato, lui risponde senza indugio – ed è la notizia nella notizia -: «Le norme sulla clandestinità (della legge Bossi-Fini, ndr), le tabelle sulle droghe (della Fini-Giovanardi, ndr) e la ex Cirielli sulle recidive, innanzitutto». «Siamo in un Paese dove ormai a ogni problema si dà solo una risposta penale e l’attuale governo attribuisce al carcere solo un ruolo securitario – commenta Sbriglia -. È una grande bugia: so, come direttore, che stiamo allevano nelle nostre prigioni i mostri di domani, persone che non usciranno rieducate ma più desiderose di vendetta e più preparate “professionalmente” al crimine». «Non si può punire una persona – aggiunge parlando del reato di clandestinità – per il semplice fatto di aver avuto la fortuna di sopravvivere a viaggi spaventosi in cerca di una chance». E sulle droghe ammette: «Si è sempre affrontato il problema con piglio ideologico, da una parte e dall’altra». A criticare Fini non ci pensa nemmeno. Anzi, di politica, il coordinatore triestino di Fli, non vuole parlare ma è disposto a giurare che anche l’autore di quelle insane leggi, responsabili del sovraffollamento carcerario, oggi potrebbe tranquillamente ammettere la necessità di «rivederle, sulla scorta dell’ esperienza».
Il Si.Di.Pe. però, ci tiene a spiegare Sbriglia, è un sindacato «trasversale alle appartenenze politiche», oltre ad essere «composto per la maggior parte da donne perché sono donne la maggioranza dei dirigenti penitenziari italiani». «È un lavoro, il nostro, – spiega ancora – che richiede doti di attenzione, ascolto, sensibilità , analisi e freddezza». Sono state soprattutto le donne, racconta il direttore sindacalista, «chiamate a dirigere anche tre o quattro istituti penitenziari contemporaneamente», a non sopportare più la frustrazione di un lavoro inefficace. «Come si può immaginare un’azione di recupero che induca i detenuti a credere che le leggi sono fatte in favore e non contro le persone, se poi non si riconosce loro nemmeno il diritto a una branda o alla salute?». Lo spazio, però, non è tutto. Sbriglia, infatti, non crede affatto che il piano di edilizia carceraria sia la soluzione: «Se riuscissi a impegnare i detenuti in mille attività , l’ultimo loro pensiero sarebbe quello dello spazio in cui dormire».
Ed è forse proprio per la composizione di genere, che l’appello diffuso ai media dal sindacato dei dirigenti penitenziari non usa mezzi termini: esprime «indignazione e rabbia» anche per come le parole di Giorgio Napolitano, quando aveva esortato la politica a dare risposte a una «questione di prepotente urgenza sul piano costituzionale e civile», siano poi risultate «ininfluenti». Al capo dello Stato va un grazie particolare, come a Marco Pannella, ai Radicali e alle associazioni che «continuano incessantemente a ricordare la gravità della situaione». Si lamentano però, i dirigenti, di non essere in «condizione di svolgere il nostro lavoro con dignità , nell’effettivo rispetto delle leggi solennemente enunciate e quotidianamente violentate». «Noi direttori penitenziari d’istituto e degli uffici dell’esecuzione penale esterna – si legge ancora nell’appello -, privati di regole contrattuali in materia di rapporto di lavoro da sei anni, di un rapporto di lavoro speciale, solo nei doveri definito di “diritto pubblico” (alla stregua di quello dei magistrati, del personale diplomatico, dei prefetti, dei dirigenti delle forze di polizia, dei docenti universitari…), siamo stati, in verità , ricacciati negli angoli più bui di uno Stato che non sembra in grado di mantenere fede agli impegni ed alle promesse solenni celebrate nelle sue leggi». Si dicono «davvero preoccupati» che «il tempo delle barbarie verso il quale corriamo seppellisca le spinte legalitarie e riformiste che speravamo dovessero divenire gli strumenti principali per avviare, in modo progressivo e veloce, un concreto miglioramento del sistema carcerario, nonché favorire la formazione di una coscienza più forte e comune in materia di diritti umani e sistema penale». Per questo avvertono: «Siamo ancora una volta pronti alla mobilitazione per denunciare tutto ciò».
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