Balie, tate e badanti “Così siamo cambiate dall’Unità a oggi”
«Non ci sono domestici in casa Garibaldi, tutti si servono e si aiutano reciprocamente». Così scriveva da Caprera il dottor Timoteo Riboli, dopo aver fatto visita all’eroe dei due mondi nel gennaio del 1861. In verità ai tempi dell’Unità d’Italia i domestici erano tutt’altro che scomparsi, anzi il primo censimento nazionale ne contò oltre 473mila, pari al 3,4% della popolazione attiva: una percentuale destinata a calare lentamente col tempo, fino al «revival del lavoro domestico» scatenato negli ultimi vent’anni dall’arrivo delle lavoratrici immigrate.
Dalle cameriere alle colf, dalle balie alle badanti, le Acli Colf si danno appuntamento oggi a Roma per raccontare i 150 anni del lavoro domestico in Italia. Cosa emerge? Stando alla ricerca di Raffaella Sarti dell’università di Urbino, a partire dalla fine dell’Ottocento si assiste a una «crisi delle domestiche»: dal 1881 al 1901 scendono dal 4,1 al 3% degli attivi. Il lavoro in fabbrica comincia ad attirare le ragazze, non perché meno duro ma perché un’operaia finita la giornata è «padrona di sé», mentre la domestica resta 24 ore al giorno a disposizione dei padroni. Un’inversione di tendenza si ha solo negli anni del fascismo: tra il 1921 e il ‘36 i domestici aumentano di 200mila unità , sono per lo più (95%) donne che lasciano la famiglia per andare a servizio in città . In questi anni le colf mancano ancora di una vera disciplina legislativa, sono le associazioni cattoliche a occuparsi di loro, a dare un senso religioso ai loro sacrifici e a usarle come alleate nella lotta contro la secolarizzazione delle famiglie.
L’esperienza migratoria, pur con le sue sofferenze, cambia profondamente chi l’affronta. «Chi l’aveva mai visto il telefono», scrive nelle sue memorie Bruna, domestica a Firenze dal 1938. Per molte lasciare il paese d’origine diventa così una scelta di libertà .
Il lavoro domestico continua però a essere luogo di sfruttamento. Solo il codice civile del 1942 introduce le ferie retribuite e, in casi circoscritti, l’indennità di fine rapporto. Nulla più. Si pensa infatti che un rapporto di lavoro tutt’interno alle pareti domestiche venga meglio regolato tra i privati. Bisogna aspettare il 1958 per vedere approvata la prima (e finora unica) legge organica sul lavoro domestico. Una legge che non garantisce ancora appieno i diritti delle colf, ma già fa infuriare i benpensanti: «Le sembra giusto che le cameriere debbano ottenere la libera uscita tutte le domeniche, oltre che tutte le feste infrasettimanali?» scrive nel ‘58 un lettore all’allora direttore di “Epoca”, Enzo Biagi.
Nel frattempo il lavoro domestico cambia volto: dalle lavoratrici coresidenti coi padroni si passa alle donne delle pulizie a servizio per più famiglie. La modernizzazione prosegue con la sentenza della Consulta del 1969 che apre la strada al primo contratto collettivo.
Bisogna arrivare infine agli anni nostri per vedere arrestarsi la fuga dei domestici. È l’arrivo degli immigrati, che aumenta l’offerta e abbassa i costi. Se a questo si aggiunge l’insufficienza del welfare italiano, ecco spiegato il revival in corso del lavoro domestico. Nasce anche una figura professionale in parte nuova: la badante. Basta uno sguardo ai dati Inps per trovare conferma: i lavoratori domestici stranieri sono il 16% del totale nel ’91, il 50% nel ‘96 e l’82% nel 2010. Per non parlare delle sacche di lavoro nero, invisibili alle statistiche.
«Ricordare il contributo silenzioso di quelle donne e uomini che hanno partecipato e partecipano tutt’ora alla costruzione della nazione – spiega Raffaella Maioni, responsabile nazionale Acli Colf – sarà il nostro modo di celebrare i 150 anni dell’Unità ».
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