Austerity. Dallo shock del ’73 allo spread se la crisi cambia la filosofia di vita
Un paese austero, l’Italia, non lo è stato mai. Povero, spesso, costretto a vivere, suo malgrado, di rinunce. Ma austero, nel senso di una autolimitazione consapevole, del gusto di una misura attenta di risorse e disponibilità , proprio no. Se ne accorse Enrico Berlinguer, quando, nel gennaio del 1977, nel pieno della crisi economica che mordeva il paese, lanciò un appello all’austerità , contro il dominio dei consumi: «Una società più austera – diceva il segretario del Pci – può essere una società più giusta, meno diseguale, realmente più libera, più democratica, più umana». Era un appello per un’altra Italia. Di fatto, una provocazione: nell’immaginario degli italiani di allora, l’austerità aveva un sapore amaro. Quello dell’estremo oltraggio ad un modo di vita e ad uno scenario di benessere appena raggiunto: l’austerità delle “domeniche a piedi”.
L’austerità entra, infatti, nel lessico politico italiano nel 1973, con l’embargo petrolifero deciso dai paesi arabi: lo shock che avrebbe cambiato per sempre l’equazione fra economia ed energia. Anche allora, l’austerità veniva dall’estero, tanto che, con pudore democristiano, fu ufficialmente battezzata “austerity”. Di fronte al vertiginoso aumento dei prezzi del petrolio, si trattava di comprimere drasticamente il consumo, anzitutto, di benzina. E il blocco domenicale della circolazione, più ancora che per i suoi effetti concreti sul volume dei consumi, serviva anche a rompere la dipendenza psicologica con l’automobile, indicando l’alternativa dell’autobus o della bicicletta, per quietare la fame sempre crescente di energia.
Niente gite fuori porta, pranzi dai suoceri, il cinema solo sotto casa. Più che le rinunce concrete, però, pesava agli italiani l’interruzione del sogno iniziato, poco più di dieci anni prima, con il miracolo economico. Appena usciti dalla 600, per autopromuoversi ad una media cilindrata, gli italiani si vedevano sottratto il simbolo più visibile del proprio progresso, del proprio benessere e anche del proprio prestigio. Di quegli anni durissimi (fu inventata allora, esplodendo subito, la cassa integrazione) le “domeniche a piedi” sono rimaste, per molti, il ricordo più vivido: l’austerità come penitenza.
In quanto “brand”, dunque, direbbe un esperto di marketing, l’austerità di Berlinguer non era destinata a fare strada. La storia avrebbe, anzi, imboccato la strada opposta. Il discorso di Berlinguer precede di un fiato i ruggenti anni ’80, la “Milano da bere”, la corsa sfrenata dell’inflazione a due cifre e del torrente della spesa pubblica: è in quegli anni, quelli dei governi Craxi, Goria, De Mita che il debito pubblico italiano rompe gli argini e diventa quella montagna che non riusciremo più a intaccare e che oggi ci schiaccia. La resa dei conti sarebbe avvenuta nel decennio successivo, i grigi anni ’90 delle manovre “lacrime e sangue” di Amato e poi di Ciampi e Prodi. Tagli, sacrifici e tasse, anche se la parola austerità viene pronunciata solo a bassa voce. A differenza degli anni ’70, quando serviva solo a tamponare la crisi e frenare i consumi di energia, questa austerità ha, però, uno scopo preciso, simboleggiato nell’eurotassa prodiana: entrare in Europa o, meglio, nell’euro.
Ed è per restarci che, oggi, torniamo a parlare di austerità . Le cifre sono drammatiche. Abbiamo un debito di quasi 2 mila miliardi di euro, che dovremo restituire, nell’arco dei prossimi sette anni, in larga misura facendoci prestare, volta a volta, i soldi necessari. Di fronte alla fuga degli investitori dai titoli italiani, occorre dimostrare che siamo in grado di onorare gli impegni. Ma neanche un bilancio in pareggio basta più: per coprire le spese e pagare anche gli interessi, dicono gli analisti, occorre che il bilancio sia in attivo, grosso modo, di 75 miliardi di euro, quanti ne occorrono, ogni anno, per gli interessi, che, altrimenti, andrebbero ad aumentare il debito complessivo, in una giostra micidiale. Significa tagliare ancora la spesa e rastrellare nuove entrate. Berlinguer, forse, direbbe che è una nuova occasione per riformare l’Italia. Di sicuro, è un passaggio obbligato. Ma l’austerità non è fatta solo di tagli e rincari. È fatta anche di tempi. E, nella versione attuale, l’austerità ha dei risvolti che non aveva in passato.
Dietro l’austerità che, soprattutto nell’ottica tedesca, si vuole imporre ai paesi deboli, come Grecia e Italia, c’è un’implicita morale, anche se ben diversa da quella di Berlinguer: i paesi spendaccioni vanno puniti per i loro eccessi. E il rifiuto di aiuti generosi e risolutivi si spiega con il timore che, tolta la camicia di forza, i paesi spendaccioni ricadano nei loro vizi. L’austerità come punizione, piuttosto che come penitenza. Ma c’è anche una teoria economica che si riassume in un ossimoro: l’austerità espansiva (in gergo: consolidamento fiscale espansivo).
In poche parole, tagli e rincari rapidi e spietati per risanare le finanze. Raggiunto l’obiettivo, riguadagnata la credibilità sui mercati, tornerà anche la fiducia e, con la fiducia (il premio Nobel Paul Krugman la chiama ironicamente “la fatina della fiducia”) torneranno gli investimenti e la crescita economica. Il problema, dicono i critici come Krugman, è che un’economia depressa dai tagli produce anche meno entrate, come si è visto in Grecia, e questo costringe a nuovi tagli, in una spirale perversa. Meglio, argomentano, cadenzare i tempi dell’austerità per lasciare all’economia il fiato per ripartire. Vista con gli occhi di oggi, l’austerità si può declinare, insomma, in due modi o, meglio, in due diverse scommesse: austerità e poi crescita, oppure austerità più crescita.
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