Afghanistan. Le donne dieci anni dopo
Kabul. Le rose sono un po’ sfiorite, strangolate dalla polvere. Ma le ragazze di Kabul non ci fanno caso. Passeggiano nei vialetti del Giardino di Sharara tenendosi per mano, qualcuna si lascia il fazzoletto sulle spalle, quasi a voler approfittare del sole pallido di novembre. Un’adolescente con il chador nero si esercita ad andare in bicicletta fra le aiuole, le più giovani addirittura volano alte sui seggiolini dell’altalena, ridendo. Dal locale vicino arriva l’odore penetrante dei ravioli mantu: è una delle aule dove le afgane imparano a cucinare. È il giardino riservato alle donne.
I dollari di Usaid sono serviti a ricostruirlo, dopo che i Taliban l’avevano trasformato in discarica. Gli euro della Cooperazione italiana sono serviti ad alimentare sogni dell’indipendenza economica, grazie a corsi di cucina, taglio di pietre dure, riparazioni elettroniche e persino scuola guida. E le donne tassiste devono fare in fretta ad imparare, la società Mfi Muthaid preme perché comincino a lavorare quanto prima.
Ma attorno al giardino i muri sono alti, la sorveglianza è affidata a soldati con kalashnikov. All’ingresso tre robuste poliziotte procedono alle perquisizioni: niente burqa qui, perché sotto si può nascondere di tutto. La realtà di Kabul è sempre lì, tutto intorno all’isola di pace fra le aiuole. Da questa parte il ricordo di altri tempi per le anziane e la speranza per le più giovani, dall’altra parte delle recinzioni i checkpoint, le armi, il filo spinato, la paura.
A dieci anni dall’inizio dell’intervento militare, i vertici della missione internazionale Isaf parlano apertamente di ritiro. E le donne dell’Afghanistan devono fare un bilancio. Era la loro oppressione che l’Occidente ha usato per giustificare e rendere quasi accettabili i missili e le bombe a grappolo. I burqa come le armi di distruzione di massa nascoste da Saddam Hussein. «Le truppe internazionali vogliono lasciare l’Afghanistan prima possibile, sono alla ricerca di una soluzione rapida: in questa situazione i diritti umani e delle donne potrebbero essere facilmente considerati sacrificabili», dice Horia Mosadiq, di Amnesty International. Tanto più che le trattative con i Taliban per la riconciliazione nazionale, attive o ferme che siano, «sono gestite senza nessuna trasparenza, i gruppi femminili, gli attivisti e la società civile sono esclusi». In parole più esplicite, nessuno sa che cosa succederà , se governo afgano e comunità internazionale saranno costretti a scegliere fra pace e tutela delle donne. I segnali che nei giorni scorsi sono arrivati dal compound blindatissimo utilizzato per la Loya Jirga, l’assemblea tradizionale voluta da Hamid Karzai, non sembrano lusinghieri. Il presidente appare più preoccupato di sottolineare lo spirito nazionalista del suo governo piuttosto che di tutelare i diritti dei cittadini. Eppure il suo ruolo sarebbe fondamentale per distinguere con chiarezza fra cultura afgana e abusi, fra la sharia, magari intesa in senso moderato, il rigido codice locale che gli esperti chiamano Pashtunwali e la violenza senza scusanti. Per Fawzia Koofi, parlamentare e attivista femminile, «le nostre tradizioni islamiche non c’entrano niente con gli stupri, che i Taliban tolleravano e non punivano».
Anche le Nazioni Unite sottolineano gli impegni presi dieci anni fa dall’Occidente. Nel rapporto sulla condizione femminile – che uscirà oggi – ci sono «luci, ombre e nuvole», come anticipa Staffan de Mistura, rappresentante del segretario generale Onu in Afghanistan: «Le luci sono la presenza femminile nelle scuole, in Parlamento, le leggi sulla violenza che finalmente si comincia ad applicare. Le ombre sono soprattutto i rilasci rapidi degli uomini condannati per questi abusi. Le nuvole sono legate al rischio che ogni accordo sia legato a «scorciatoie» nel campo dei diritti umani e delle donne. Serve una sorveglianza continua, ma servono anche le risorse, perché non si ritorni indietro nelle conquiste fatte».
Un altro segnale inquietante era stato, nei giorni scorsi, il ritiro di un documentario voluto e finanziato dall’Unione europea sulle donne nelle carceri. In-Justice, firmato da Clementine Malpas, non sarà distribuito perché – dicono in tanti – potrebbe mettere a rischio i rapporti fra Ue e governo britannico. «Nel modo più assoluto, da parte europea non c’è nessuna voglia di sacrificare i diritti delle donne per motivi diplomatici. C’è solo un’esigenza di tutela per le detenute che hanno testimoniato, ritratte a viso scoperto nel film, con la reale possibilità di rappresaglie», taglia corto Vygaudas Usackas, rappresentante dell’Unione a Kabul, lasciando capire che chi ha commissionato il lavoro, a Bruxelles come a Kabul, sapeva già che cosa lo attendeva. Insomma, nessuno poteva illudersi che da un documentario del genere venissero fuori informazioni lusinghiere per la giustizia afgana.
Al di là delle goffaggini e dei ripensamenti, anche un incidente come questo contribuisce a testimoniare quanto la tutela delle donne sia un nervo scoperto, destinato a irritarsi sempre di più man mano che il disimpegno occidentale proseguirà . «Che cosa succederebbe se il governo di Kabul si accordasse con i Taliban per ottenere la pace a spese delle donne? Vieterebbero di nuovo il lavoro femminile, la vita di chi si è esposta sarebbe in pericolo», dice Maria Bashir, la procuratrice di Herat diventata «eroina» delle donne afgane per il lavoro nella squadra anti – violenza in tutta la zona Ovest. «Quanto a me, mi ucciderebbero senz’altro». Ma non succederà . Non voglio crederci».
Un ritorno alle condizioni semi-medievali del regime Taliban appare davvero irrealistico. Con il mullah Omar le donne non potevano lavorare, oggi in Parlamento ne siedono 69, molte elette grazie alle «quote rosa», qualcuna arrivata anche battendo i candidati uomini. Le bambine che si vedevano vietare dagli studenti coranici l’accesso a scuola, oggi costituiscono il 40 per cento del corpo studentesco. E nelle città il velo integrale lascia sempre più spazio ai jeans, il più diffuso è l’hijab che lascia il viso scoperto, senza che nessuno usi più la frusta per punire chi si affaccia in strada in abiti «provocanti».
Ma nelle campagne e nei villaggi la situazione è diversa. Qui le donne sono ancora esseri senza diritti, spesso date in sposa a mariti anziani ben prima di poter capire che cosa è un matrimonio, o rinchiuse in casa senza nessuna istruzione. Aumentano persino i casi di ragazze che si rifugiano nell’oppio. Le mogli che fuggono da un marito violento spesso si vedono rinchiudere in carcere. E in qualche distretto le regole degli integralisti sono applicate con mano pesante: le scuole femminili saltano in aria e la condotta «non conforme» viene considerata adulterio e punita con la morte sotto le pietre: è successo a Ghazni meno di un mese fa a una vedova e sua figlia, lapidate dopo che il mullah aveva criticato il loro non ben definito «comportamento immorale».
Insomma, per le donne afgane non è finita. Fawzia Koofi conta molto su una nuova legge – in via di approvazione in Parlamento – che prevede punizioni severe anche per il matrimonio forzoso e vieta le nozze delle bambine sotto i 16 anni: «Le afgane sono venute da tutto il Paese per manifestare, per chiedere correzioni alla legge. Abbiamo la decisione per cambiare le cose. Ma non lasciateci sole».
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