Afghanistan, inferno di carbone
Fuori dalle gallerie, altri lavoratori spingono carrelli pieni di carbone giù per il pendio, fazzoletti legate attorno al viso per proteggersi dalla polvere nera. Più giù, ragazzi a piedi nudi sui cumuli di carbone separano a mano i pezzi più grandi, mentre altri raccolgono con la pala le minutaglie che caricano su un camion. Attorno capre cercano qualche erbaccia che spunta tra pezzi di rotaie e cavi di acciaio».
Sembra la descrizione di una miniera settecentesca, salvo qualche dettaglio – inizi della rivoluzione industriale in Inghilterra. Ma no: è il resoconto della visita di un reporter americano alla miniera di Karkar, Afghanistan settentrionale; pubblicata dal gruppo editoriale McClatchy Newspapers, risale a due settimane fa.
L’articolo spiega che questa miniera alimenta l’unica fabbrica di cemento dell’Afghanistan, la Ghori Cement Factory. E che l’accoppiata di miniera e cementificio, nella provincia di Baghlan, poco meno di 200 chilometri a nord di Kabul, sono diventati una sorta di emblema della corruzione, del nepotismo e della cattiva gestione che pervadono l’Afghanistan di oggi. Forse, dovremmo aggiungere, un vivido esempio di come condizioni di lavoro malsane, inquinamento e sfruttamento selvaggio si sposano con malaffare e corruzione. Riassumiano. La miniera di Karlar e il cementificio sono in concessione a Mahmoud Karzai, amministratore delegato della Afghan Investment Company, e di Abdul Hussain Fahim, vicepresidente della stessa compagnia. I nomi contano: il primo è uno dei fratelli del presidente Hamid Karzai; l’altro è fratello dell’ex ministro della difesa Mohammad Qasim Fahim, attuale vicepresidente della repubblica. I due hanno chiesto la concessione nel 2006, dichiarando di avere una «cordata» di investitori tra cui raccogliere i capitali necessari a rimettere in funzione l’impresa. Alla fine hanno ottenuto la concessione: anche se nel frattempo gli investitori si erano volatilizzati, e anche se nel frattempo era stato valutato che la ristrutturazione tecnica della miniera e del cementificio avrebbero richiesto oltre 500 milioni di dollari – i nuovi concessionari avevano solo 45 milioni di capitale, incluso un prestito. Una commissione parlamentare aveva cominciato a studiare il caso di Karkar, nell’ambito di un’indagine su come le privatizzazioni di imprese statali avessero favorito una cerchia di parenti di dirigenti del governo. Ma è finita male: un misterioso attentato nel novembre 2007 a Baghlan ha ucciso i 6 deputati della commisione d’indagine, che erano nella provincia per un sopralluogo, insieme ad altre 60 persone.
Il risultato è che oggi la miniera funziona come descritto: mezzi obsoleti, uomini e ragazzi che lavorano senza alcuna protezione, «ogni giorno scendiamo in miniera di nostra volontà e speriamo che Allah ci faccia uscire vivi». Il cementificio funziona al minimo perché manca energia (carbone) e perché solo un impianto su tre è attivo, essendo mandato l’investimento necessario a rimodernare la fabbrica – che pure avrebbe mercato, dato che l’edilizia è una delle attività che più tirano in Afghanistan (il cemento però è importato dal vicino Pakistan).
L’Afghanistan progetta di aprire molte nuove miniere, per mettere a frutto le ricchezze del suo sottosuolo – ferro, carbone, oro, rame, petrolio, pietre prezione – e i primi investitori stranieri a farsi avanti pare siano indiani e cinesi. Quelli occidentali vogliono prima che il governo afghano dia garanzie sulla trasparenza e la protezione dei loro investimenti – il caso Karkar insegna. Le condizioni di lavoro, la salute, la sicurezza? Questo no, non risulta che siano entrate in nessuna trattativa.
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