A chi andrà  l’esercito libico? I signori della guerra

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Ha detto alla Reuters che i libici non vogliono più vedere il Qatar interferire nei loro affari interni, ringraziano per l’aiuto ricevuto durante la rivoluzione ma come ha fatto egregiamente la Tunisia ora anche il Qatar deve tornare a casa e soprattutto deve smetterla di continuare ad armare i fondamentalisti impedendo al Cnt, il Consiglio nazionale transitorio, nella persona del neoeletto primo ministro al-Keib, di nominare i nuovi vertici dell’esercito.
Che quello del capo della difesa sia un tasto assai dolente in Libia ce ne eravamo già  accorti a luglio quando Abdel Fattah Younes, ex ministro della difesa di Gheddafi divenuto poi capo dell’esercito del Cnt, venne misteriosamente assassinato vicino a Bengasi.
Il nodo da sciogliere è attualmente rappresentato dalla contesa tra due «signori della guerra», entrambi stanziati a Tripoli. Su un versante c’è il noto Abdel Hakim Belhadj legato agli ambienti taleban afghani che si stima essere a capo di una milizia armatissima di circa 25.000 unità , e che è riuscito ad intessere buoni rapporti coi vertici del Cnt tanto che in una recente parata il ministro della giustizia del governo transitorio Mohammed al-Allagi ha preso posto al suo fianco.
Sull’altro versante c’è Abdullah Naker, uno dei comandanti che ha guidato la rivoluzione battendosi al fronte e proprio questo aspetto rivendicherebbe contro Belhadj, ritenuto inadeguato a dirigere le forze armate perché accusato di essersi affacciato sulla scena solo a fine agosto quando il grosso era già  stato fatto. Naker è a capo di una milizia, anch’essa armata fino ai denti, che conta circa 20.000 unità . Entrambi temono che nel nascente esercito nazionale non vi sarà  un’adeguata rappresentanza dei propri schieramenti.
In realtà  in questi giorni un capo della difesa è stato indicato dal Cnt nella persona del generale Khalifa Heftah, un militare ex-gheddafiano poi esiliatosi per 30 anni negli Usa dove, si dice, abbia intessuto stretti rapporti con la Cia, che tanto Belhadj quanto Naker non sono affatto disposti a riconoscere, limitandosi per ora a reputare la scelta «prematura».
Ciò avviene mentre il popolo libico, a quasi un mese dall’insediamento del nuovo governo, è ancora tutto in armi, e non intende deporle finché non si sentirà  adeguatamente rappresentato. Hanno fatto la rivoluzione e non vogliono che adesso qualcuno gliela sfili di mano, questo è quello che vanno dicendo ai microfoni dei giornalisti che in queste ore li avvicinano.
Gli attori internazionali invece altro non aspettano che la gente deponga le armi per tornare alle proprie commesse, quelle lasciate in sospeso e quelle di nuova fattura, anche se quest’ultima voce resterà  aperta probabilmente solo per Gran Bretagna e Francia. L’Italia dovrà  già  esser contenta se vedrà  rinnovate quelle che erano le commesse prima della rivoluzione e che garantivano al nostro paese il 30% del fabbisogno energetico.
La Cina invece si è defilata con nonchalance, rinunciando ai propri contratti che prima della rivoluzione ammontavano a circa 19 miliardi di dollari, cifra che anche per un paese grande e ricco come la Cina non è del tutto irrisoria. Se a questo si aggiunge il fatto che giorni fa Pechino ha deciso di assegnare il Confucius Peace Prize, il Nobel per la pace cinese, al premier russo Vladimir Putin per la sua posizione anti-interventista in Libia allora capiamo perché sarà  del tutto interessante seguire gli sviluppi di questo nuovo asse per la «pace» sino-russo che proprio in Libia sembra essersi rinsaldato, in quella terra che qualcuno dalle nostre parti, in preda a chissà  quale bizzarra eccitazione, osò definire «bel suol d’amor».


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