VIAGGIO NEL DIZIONARIO DELLE RELAZIONI (LESSICALI)

by Sergio Segio | 28 Ottobre 2011 6:59

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Il punto di partenza è elementare. Un dizionario si può consultare in due modi: conoscendo il termine di cui andiamo a caccia, oppure non conoscendolo, e avendo solo una vaga idea della sua esistenza. Del primo caso si occupano i dizionari tradizionali, del secondo, quelli come il Dizionario Analogico della Lingua Italiana di Donata Feroldi e Elena Dal Pra (Zanichelli, pagg. 960, euro 59), ultima novità  “portatile” in questo campo: due anni fa Utet aveva pubblicato una grande opera diretta e curata da Raffaele Simone di ben 3.900 pagine.
La differenza è la stessa che passa fra una ricerca verticale e una orizzontale. Esaminiamo dunque quest’ultima: quante volte, mentre stiamo esponendo un concetto, la parola che serve a esprimere il nostro pensiero ci sfugge, malgrado sappiamo che esista? È proprio qui che interviene l'”analogico”: non per cercare qualcosa che già  possediamo, ma per trovare quello che ignoriamo. Insomma, per dirla con un titolo dello scrittore francese Pascal Quignard, questo tipo di libri serve a rintracciare le parole rimaste “sulla punta della lingua”.
La differenza fra le due famiglie di vocabolari viene chiarita nella presentazione, firmata dalla prima autrice (essendosi la seconda occupata di poco più di un decimo dell’opera). Per ricorrere all’analogico, basta essere in possesso di un termine collegato a quello che ci interessa, o anche soltanto sapere a quale ambito disciplinare esso appartenga. Piuttosto che all’ignoranza del significato di un elemento noto, questo strano strumento (alla stregua di un dizionario dei sinonimi e contrari, che non a caso ne costituisce l’antecedente) risponde a una lacuna espressiva. I suoi fruitori ideali saranno dunque tutti coloro che hanno la necessità  di trovare “le parole per dirlo” (e questa volta il riferimento è a un romanzo autobiografico della francese Marie Cardinal).
Ma in che modo funziona questa scatola magica? Abbiamo parlato della sua orizzontalità , ed è proprio questo tipo di configurazione a consentire di attraversarne le pagine in una specie di surf lessicale, scivolando leggeri da un termine all’altro. Facciamo un esempio vicino alla cronaca: “corruzione” (da adesso in poi, e me ne scuso, dovrò fare a meno delle virgolette, che altrimenti infesterebbero il resto dell’articolo). Si arriva subito al verbo corrompere, e a cinque sostantivi: favore, reato, vizio, peccato, malavita. Imbocchiamo la strada del peccato, e ci troviamo davanti a un ventaglio di caratteristiche (una ventina di voci, da piccolo a grave, da turpe a mortale), di azioni (una trentina di verbi fra cui tentare, trasgredire, pentirsi) e di persone (con penitente e confessore). Ma non tralasciamo la coda, dove è questione di diavolo, religione, sacramenti e inferno. Morale: la via della corruzione porta dritta alle fiamme.
Scegliamo poi un oggetto concreto: pedale. Finiremo in un attimo in motocicletta, bicicletta e automobile, ma ci imbatteremo anche in strumenti musicali e, curioso davvero, calzolaio. Seguendo quest’ultima pista, incontriamo in effetti i suoi strumenti, dalla lesina al deschetto, con tanto di pedale e tirasuole. Scopriremo così l’espressione torace da calzolaio, per indicare un petto infossato.
Prendiamo infine un termine più astratto: parola. Ecco venire fuori, a bruciapelo, una serie composta da: motto, termine, vocabolo, voce, lemma. Dopo questo livello, appare il più complesso occorrenza, quindi, meno ostici, paroletta, parolina, parolona, parolone e parolaccia, su su fino agli ardui locuzione, polirematica e sintagma. Seguono le caratteristiche del nostro vocabolo (un centinaio di aggettivi), poi cinque generi di tipi (in base all’accento, alla lunghezza, alla forma, al significato e alla formazione). Da qui ci si sposta per vedere le parti che lo compongono (ad esempio la sillaba), le discipline che lo studiano (ad esempio la linguistica), le persone che se ne occupano (ad esempio il semiologo) le azioni cui dà  vita (ad esempio il ripetere pappagallescamente), gli strumenti che lo riguardano (ad esempio il libro) e per terminare i modi di dire (ad esempio dare la propria parola). Per i più curiosi, segnalo che nella voce successiva, paroliere, troviamo come rinvii canzone, musicista e, a chiudere, il cerchio parola.
Ma non posso concludere senza un accenno personale. Traduttrice, critica e teorica della letteratura oltreché lessicografa. Donata Feroldi si è laureata in filosofia con una tesi intitolata “Il significato dell’orrore”. Un’indagine teoretica sul significato del termine. Era il 1991 quando mi capitò di leggerla, e ne rimasi assai colpito. Infatti, sin da allora, la ricerca della studiosa appariva impostata come un ipertesto, ossia «un insieme di nodi connessi da legami, dove le informazioni non sono legate linearmente, come su una corda a nodi, ma estendono i loro legami a stella, con una modalità  reticolare». Insomma, già  da vent’anni Donata Feroldi si muoveva secondo i protocolli dell’attuale Dizionario Analogico della lingua italiana.
Un simile approccio generava molte sorprese. Scoprii così che orrido proviene dal latino horreo (per indicare il rizzarsi dei peli), seppi che dalla stessa radice proviene il francese ordure (cioè spazzatura), mi accorsi della parziale coincidenza dell’etimologia di orrore con quella di raccapriccio e capriccio (forse da capo riccio), mi resi conto che ribrezzo è un derivato di brezza (in riferimento al vento che fa rabbrividire), realizzai che il vocabolo schifo è collegato al verbo schifare (nel senso di schivare, evitare), e giunsi al gran finale di un’interpretazione globale, secondo cui l’orrore si rivelava come «essere confrontati con l’origine», perché «l’orrore è esperienza limite in tutti i sensi e secondo tutte le topografie culturali».
Credo che quella tesi ebbe la lode. Certo, oggi è difficile resistere alla tentazione di pensare che, mentre un tempo l’università  pubblica serviva a studiare l’orrore, domani si limiterà  a praticarlo, sotto forma di un insegnamento depauperato, svalutato e privatizzato.

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