Un’occasione per i democratici

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Possiamo fare nostre queste parole di Mike Davis? Oppure il movimento Occupy Wall Street è solo un altro falso profeta, per continuare la metafora del saggista californiano? È la domanda che tutti ci poniamo, dopo essere stati scottati da troppe false partenze e rapide evaporazioni. Ma lo scetticismo circondava già  le prime manifestazioni. Già  il 17 settembre tutti temevano un fuoco di paglia: sembravano insuperabili gli ostacoli che si frapponevano alla crescita del movimento. Intanto per cominciare il silenzio sostanzialmente ostile dei media (nella voce «Occupy Wall Street» di Wikipedia inglese un diagramma mostra la diversa copertura mediatica del Tea Party e di Occupy ai loro esordi). Ma la diversa copertura mediatica è solo il riflesso della sostanziale asimmetria che caratterizza il quadro politico (non solo americano), in cui il partito di destra (i repubblicani) è molto più a destra di quanto l’avversario è di sinistra (se i democratici possono essere definiti tali). Nonostante punti di attrito, persino di conflitto, i repubblicani hanno avuto con il Tea Party una relazione molto più dialettica (e quindi molto più fruttuosa) di quanto stia avvenendo tra gli occupatori e i democratici, nonostante il ripetuto sostegno offerto dal presidente Barack Obama alla protesta.
Come ha già  scritto sul manifesto l’ex ministro del lavoro di Bill Clinton ed economista di sinistra Robert Reich, per l’attuale apparato democratico questo movimento crea più problemi che occasioni. Intanto perché spazza via un alibi che finora era servito a giustificare l’inerzia, diciamo pure la codardia dei deputati (e soprattutto dei senatori) democratici, e cioè che se non c’è una spinta esterna al parlamento (letteralmente extra-parlamentare), i politici si trovano con le mani legate dagli avversari.
Bene, ora questa spinta dall’esterno c’è. Sono passati 43 giorni da quella prima manifestazione, Zuccotti park è un nome che, per quanto ridicolo, è ormai famoso in tutto il mondo. I militanti che dormono nelle tende non solo a New York, ma anche in altre città  come Boston, Philadelphia, Portland cominciano a pagare il tributo che ogni movimento versa alla repressione poliziesca, il pedaggio delle cariche e degli arresti. 700 arresti a New York, 170 a Chicago, brutalità  poliziesche a Oakland, dove un dimostrante, un marine veterano della guerra in Iraq, è stato colpito da un proiettile della polizia e versa in fin di vita (che ironia! Sopravvivere alle mine e ai cecchini iracheni per farsi colpire dal «fuoco amico» in patria).
Forse non è casuale che le città  più colpite da queste manifestazioni abbiano sindaci democratici. Sindaco di Chicago è Rahm Emanuel, ex capo dello staff della Casa bianca di Obama. Oakland è stata per decenni signoria di Jerry Brown, ex sessantottino e ora governatore della California. Più conciliante con i dimostranti si è rivelato il sindaco di New York Michael Bloomberg (indipendente). Anche questi dettagli esplicitano quanto sia problematico il rapporto tra Occupy e i democratici (secondo un sondaggio solo il 27,3 % dei dimostranti si dichiara democratico, il 70% indipendente e il 2,4 % repubblicano).
Ancora più preoccupante per i democratici, in chiave elettorale per il novembre 2012, è l’appoggio che piano piano i sindacati stanno dando al movimento. Gli apparati sindacali hanno da sempre costituito la «cavalleria numida» nelle battaglie elettorali, hanno fornito uomini e denaro. Il fatto che si muovano indica l’inizio di una nuova fase (ricordiamo che nel 1999 a Seattle i sindacati Usa, e in particolare i camionisti, i Teamsters, furono determinanti nella protesta). Nessuno sa come si evolverà  Occupy, ma è indicativo che gli stessi banchieri di Wall street comincino a preoccuparsi.


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