Un’altra tessera del puzzle ma su quel patto di sangue le verità sono ancora troppe
DICE la verità ma non tutta la verità . E, anche lui, adesso entra di diritto nel club degli smemorati di Palermo.
Dopo quei ministri della Repubblicae quei funzionari di alto rango, pure Giovanni Brusca diciannove anni dopo ricorda meglio.
Precisa date, centellina qualche informazione nuova, conferma sospetti. Insomma, serve su un piatto d’argento il movente della morte di Paolo Borsellino. Ucciso perché sapeva della trattativa fra Stato e mafia, ucciso proprio perché era contrario a quella trattativa. Non è che «Giovannino» poi si sia lasciato andare tanto. Però quando rivela che fu a «fine giugno» che «quelli si fecero sotto», racconta in sostanza che c’era qualcuno a Roma che stava scendendo a patti con i Corleonesi neanche tre settimane prima del tritolo di via Mariano D’Amelio e cinque settimane dopo Capaci.
Per chi indaga sui massacri siciliani non è particolare di poco conto. È un’altra prova che nell’estate del 1992 ci fu un patto di sangue fatto sul sangue.
Prima la strage «stabilizzante» di Capaci che dopo tante fumate nere portò immediatamente al Quirinale Oscar Luigi Scalfaro, poi la strage «destabilizzante» di via D’Amelio che fece un’altra volta sprofondare l’Italia nell’abisso. È probabile che Giovanni Brusca questa volta non menta, che poi riferisca questo «dettaglio» dopo tanto tempo è tutta un’altra storia. Per ora accontentiamoci degli ultimi suoi ricordi, della conferma dell’esistenza di quel ricatto incrociato (che tutti i protagonisti istituzionali coinvolti negano e negano sempre) fra un pezzo di Stato e un pezzo di mafia, della dimostrazione di attendibilità che offre anche alle dichiarazioni di Gaspare Spatuzza.
E per quanto può valere pure a quelle di Massimo Ciancimino, il figlio di don Vito che fu il primo in verità a collocare l’inizio della trattativa fra le due stragi ma che fra un disvelamentoe l’altroè riuscito anche – con distribuzione di calunnie e occultamento di candelotti esplosivi – a disintegrare la sua credibilità .
Comunque, a questo punto, c’è una data certa da dove partire con l’indagine e una serie di fonti che non solo non si contraddicono ma che al contrario concordano perfettamente sui tempi.
Dopo la morte di Falcone lo Stato voleva fare «pace» con Totò Riina. Ufficialmente mostrava i muscoli, in segreto patteggiava.
Ma non la resa di quelli: la sua resa. Come siano andate veramente le cose non è ancora affatto chiaro. E decifrare tutto quello che confessano o fanno finta di confessare mafiosi come Giovanni Brusca o mafiosi come Totò Riina sulle stragi e su ciò che è accaduto alla vigilia, è argomento assai scivoloso.
Per esempio, Brusca- che abbiamo ascoltato in primavera nell’aula bunker di Firenze – fino a qualche mese fa sembrava un pappagallo ammaestrato quando parlava di quell’estate di diciannove anni fa e poi anche delle bombe in Continente. In sostanza addossava la colpa solo e soltanto ai suoi vecchi amici di Corleone, cancellava ogni ipotesi su «entità esterne» o «soggetti politici», riportando le indagini sulle stragi al quasi niente dove erano e probabilmente ancora oggi sono impantanate. Sulla trattativa aveva tirato dentro solo l’ex ministro degli Interni Nicola Mancino («Totò Riina mi disse che era lui il committente finale del papello»), poi bocca cucita e memoria vuota. Nelle carte segrete del capo dei capi di Corleone che Repubblica ha divulgato un paio di settimane fa, al contrario Riina sosteneva davanti ai pubblici ministeri di Caltanissetta «che sul ministro Mancino, quel Brusca è bugiardo fin sopra i capelli» per poi aggiungere però che l’ex ministro sapeva in anticipo della sua cattura e che lui era stato venduto. Apparentemente i due, Brusca e Riina, si smentiscono a vicenda ma per chi ha familiarità con il linguaggio mafioso quella contrapposizione non è poi così forte come sembra. Ecco perché diventa molto complicato parlare di stragi affidandosi solo ai «ragionamenti» dei boss di Corleone.
Dopo tutti questi anni ci resta la confessione fiume di Gaspare Spatuzza, che con la sua «cantata» ha ribaltato tutto l’impianto accusatorio precedente e sta portando alla revisione del processo Borsellino con la conseguente scarcerazione di alcuni imputati già condannati all’ergastolo in Cassazione. Ci restano le parole oblique di Totò Riina che invita i procuratori siciliani a indagare su servizi segreti e agende rosse scomparse, prendendo le distanze – come comandante di Cosa Nostra, un vero inedito questo – dall’uccisione di Borsellino («A me non ha fatto mai nemmeno una contravvenzione») ma mai dalla strage di Capaci. Ci resta poco. Alla fine, diciannove anni dopo, ci resta veramente molto poco.
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