Un mosaico dai confini mobili

by Sergio Segio | 18 Ottobre 2011 6:24

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 È invalso in antropologia l’uso di definire Medio Oriente un’area molto più estesa di quella indicata dal termine nel linguaggio mediatico. Il Medio Oriente dell’antropologia culturale va dalla Mauritania al Pakistan e dalla Turchia al Sudan; la vastità  della regione e la varietà  delle forme culturali dei popoli mediorientali spinge Ugo Fabietti, nella riedizione del suo Culture in bilico. Antropologia del Medio Oriente (Bruno Mondadori), a ricercare i nodi culturali e le forme di organizzazione sociale che, in una prospettiva comparativa, sono riscontrabili con una certa frequenza nelle culture e società  mediorientali.

Tra i nodi culturali mediorientali affrontati da Fabietti in questo volume, appaiono di stringente attualità  il tribalismo, l’etnicità , le questioni di genere e le forme dell’esperienza religiosa. A fronte dell’emergere di forme di organizzazione sociale che il linguaggio mediatico e l’analisi politica classificano frettolosamente come ataviche spinte al tribalismo, mai assorbite dagli stati nazionali, Fabietti mostra come queste forme sono tutt’altro che sopravvivenze premoderne. Rifiutando il concetto eurocentrico e onnicomprensivo di tribù, l’antropologo presenta le indagini etnografiche che hanno approfondito i concetti vicini all’esperienza delle persone che vivono in specifici contesti mediorientali, concetti attraverso i quali i gruppi rappresentano la propria organizzazione sociale. Forme di organizzazione come la hamula palestinese, la qaraba marocchina e il qawm afghano, presentate in passato come esempi di strutture tribali radicalmente diverse dall’organizzazione statale moderna, risultano invece come risposte a questioni molto attuali, come i conflitti per l’accesso alle risorse dell’economia globale e la cooperazione dal basso in fasi storiche di delegittimazione degli stati nazionali.
La porosità  etnica
Molto spesso i conflitti mediorientali sono stati spiegati tramite la formula dello scontro etnico; si è parlato addirittura dei talebani afghani come di un’etnia, mentre è risaputo che i taliban si riconoscono come gruppo più o meno omogeneo sulla base della comune educazione religiosa (talib, singolare di taliban, significa appunto studente). La regione dell’altopiano iranico e del Pakistan è stata a lungo considerata un classico esempio del «mosaico culturale» mediorientale, un’immagine a cui l’etnografia coloniale europea ha fatto ricorso per rappresentare il carattere multiforme della regione sul piano etnico, linguistico, religioso e socioculturale. Fabietti si discosta da questa formulazione, facendo ricorso a dati etnografici che dimostrano come le culture mediorientali, pur nella loro sorprendente varietà , non sono mai state isolate le une dalle altre, come la metafora delle tessere del mosaico farebbe pensare. Proprio il caso della regione pakistana permette all’antropologo di indagare le dinamiche di scambio tra diversi gruppi etnici – in questo caso pathan e baluch -, molto simili sul piano linguistico, religioso e dei tratti somatici, ma differenti dal punto di vista delle particolari visioni del mondo, che permettono ad esempio agli uomini baluchi di entrare in relazione di clientela con persone più potenti.
L’ideologia dell’indipendenza individuale dei pathan non consente loro di fare altrettanto continuando a definirsi pathan; di conseguenza, in situazioni di crisi e necessità , persone pathan che hanno bisogno di porsi sotto la protezione di un patrono, non potendo più soddisfare il criterio fondamentale dell’appartenenza etnica pathan (l’indipendenza) cambiano sia status sociale che etnia ed entrano a far parte del gruppo baluch. La porosità  dei confini etnici tra le popolazioni della regione pakistana – come di altri popoli mediorientali – e il carattere ascrittivo dell’affiliazione etnica furono ignorati dall’etnografia coloniale, che stilò cataloghi delle etnie come raggruppamenti naturali e immutabili.
Un importante nodo concettuale dell’antropologia del Medio Oriente riguarda le condizioni femminili. Piuttosto che accettare la semplicistica associazione di simboli culturali come l’harem e il veloconla subordinazione femminile, Fabietti indaga i ruoli e gli status delle donne in relazione ai contesti socioculturali specifici e più ampi.
La possibilità  di frequentare corsi di istruzione superiore e l’università  in molti contesti mediorientali ha permesso a un numero sempre crescente di donne di accedere a risorse simboliche come l’educazione superiore e di conseguenza a livelli lavorativi pari a quelli di colleghi maschi. Questo non significa, chiaramente, che le donne abbiano ovunque gli stessi diritti degli uomini, ma lo stato di effettiva subordinazione delle donne in molte società  mediorientali è analizzato da Fabietti, più che attraverso le classiche immagini della segregazione, in termini di accesso alle risorse, sia materiali che simboliche. Il velo femminile, classicamente inteso come simbolo dell’inferiorità  delle donne mediorientali, è interpretato come uno strumento morale complesso, di cui in molti contesti le donne si sono riappropriate o che hanno reinterpretato come elemento di rivendicazione dei propri diritti; secondo le femministe iraniane, ad esempio, il velo promuove la parità  dei generi, perché consente alle donne di inserirsi nel mondo del lavoro e in generale nella società  ed essere apprezzate per le proprie competenze piuttosto che per il loro aspetto fisico.
Le femministe islamiche, a loro volta, rifiutano l’idea che l’Islam promuova la subordinazione femminile; partendo dalla lettura del Corano e degli Hadith in chiave di genere, esse sostengono che il testo sacro dell’Islam e gli esempi tratti dalla vita del Profeta Muhammad promuovano l’uguaglianza di uomini e donne nella società  e di fronte a Dio. La prospettiva delle femministe islamiche trova un complemento negli studi di antropologhe, come Saba Mahmood, che hanno indagato la soggettività  delle musulmane attive nei movimenti di devozione; la partecipazione e l’attività  di queste donne si declina attraverso il perseguimento di obiettivi che non coincidono necessariamente con la rivendicazione della parità  di diritti, ma con lo sviluppo di una soggettività  devota e, secondo il significato più profondo del concetto stesso di Islam, sottomessa a Dio (Islam in arabo significa appunto sottomissione).
Tradizioni plurali
L’eccezionale varietà  delle forme assunte dalla religione islamica nelle diverse culture mediorientali è stata interpretata in modi differenti da orientalisti ed antropologi. Una classica distinzione è quella che prevede l’esistenza di un corpus centrale di dottrine, formulato nei principali centri del sapere islamico sulla base del Corano e degli altri testi base della religione, che verrebbe declinato – e spesso distorto – in forme locali che lo renderebbero comprensibile e praticabile nei diversi contesti culturali. Questa teorizzazione, tuttavia, non fa altro che riflettere il punto di vista dello scritturalismo, ossia quella corrente che, in conseguenza del contatto con l’Europa coloniale e dell’elaborazione di una concezione di modernità  propria del mondo musulmano, ha promosso la lettura dei testi come unica fonte di dottrina e pratica musulmana, escludendo così forme di religiosità  considerate popolari ed eterodosse, come il culto dei santi.
Per elaborare una teoria antropologica dell’Islam che sia inclusiva sia delle forme di religiosità  legate alle scritture, che di quelle legate a contesti specifici, Fabietti riprende la teoria di Talal Asad, secondo cui un’antropologia dell’Islam deve individuare le autorità  che, nei diversi contesti socioculturali, sono riconosciute come depositarie delle tradizioni discorsive dell’Islam e possono di conseguenza validare la tradizione, ossia riconoscere come appropriate determinate forme di credenza e pratica. Una simile prospettiva permette di superare classiche distinzioni come quella tra un Islam centrale e vari Islam periferici e quella tra una dottrinae una pratica ortodosse e forme eterodosse di religiosità  (come spesso sono considerate dai sunniti quelle degli alawiti). Inoltre questa prospettiva permette di osservare l’emergere di forme di dottrina e pratica islamica indipendenti dalle autorità  tradizionali – che siano gli ‘ulama delle moschee-università  sunnite o gli ayatollah sciiti -, autorizzate dall’ampia diffusione dell’istruzione superiore, che ha permesso ad estese fasce di popolazione nei paesi mediorientali e in generale ai musulmani di accedere direttamente ai testi e di reinterpretarli sulla base delle proprie competenze (non esclusivamente giuridiche e filologiche, ma anche tecniche e scientifiche) e delle necessità  delle società  moderne. Tra queste interpretazioni sono l’islam politico (il cosiddetto islamismo) di partiti e movimenti come Hezbollah e Fratelli Musulmani, che sostengono l’adozione di indirizzi religiosi nel governo degli stati a maggioranza musulmana; i movimenti di devozione, meno interessati all’egemonia politica e più attivi nella promozione nella società  di stili di vita improntati all’Islam; il femminismo islamico; il fondamentalismo, una dottrina che prevede l’esclusione dalle istituzioni e dalle società  di qualsiasi forma ideologica e visione del mondo che non si attenga ai presunti principi fondamentali dell’Islam.
In un capitolo dedicato all’«invenzione del Medio Oriente» – l’insieme di discorsi e pratiche di dominio che hanno diffuso la consapevolezza geopolitica ed accademica dell’esistenza di un’area così definita e rappresentata come radicalmente diversa dall’Europa moderna – Fabietti sfuma la classica distinzione tra antropologia ed orientalismo, individuando le sovrapposizioni tra le due prospettive, i temi comuni e le figure di studiosi, come William Robertson-Smith e Alois Musil, collocabili in una zona di frontiera tra le due discipline. Ciononostante, l’autore riconosce la responsabilità  dell’orientalismo nell’esclusione dei popoli mediorientali dalla Storia, mossa ideologica già  denunciata da Edward Said in Orientalismo ed oggi chiaramente smentita dagli eventi che hanno fatto emergere i popoli arabi come attivi protagonisti del cambiamento storico.
Il diktat dell’orientalismo
Seguendo un indirizzo metodologico teorizzato in opere precedenti, secondo cui l’antropologia deve occuparsi della storia degli «Altri» (altri rispetto al loro osservatore privilegiato, lo studioso occidentale) per evitare l’effetto detemporalizzante che deriva dall’assegnare ad essi soltanto una cultura, Fabietti indaga la dimensione del cambiamento storico nei “nodi” antropologici mediorientali, quali il tribalismo, le relazioni di genere, il ruolo dei mass media, le religioni come sistemi culturali. A quest’ultimo «nodo» é dedicato un capitolo inedito, che analizza la storia delle relazioni tra religione e politica in Arabia Saudita, a partire dall’insorgere del movimento rigorista degli wahhabiti, che fornì una base ideologica al jihad condotto dai Saud per conquistare la penisola arabica, fino alle recenti contestazioni subite dalla dinastia al potere da parte tanto dei movimenti fondamentalisti, quanto dagli ambienti tradizionali del sapere religioso, finalizzate a denunciare l’utilizzo strumentale del linguaggio religioso da parte dei Saud e a costruire un «autentico stato islamico».

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SCAFFALE

Il mondo analizzato a partire dalle frontiere

Ugo Fabietti è docente di «antropologia culturale dello sviluppo» presso l’università  Bocconi di Milano. Questo volume arriva dopo molti studio sul campo che hanno al cuore la tesi che ogni «cultura» è segnata dagli scambi e dalle «ibridazioni» che l’hanno interessata. Da questo punto di vista va sicuramente segnalato il saggio «Etnografia della frontiera» (Meltemi), «Dal tribale al globale» (Bruno Mondadori). Gli scritti di Fabietti puntano anche a ridefinire il campo disciplinare dell’antropologia, proprio a partire dall’impossibilità  di stabilire in modo organicistico il concetto di cultura. Da qui la critica che l’autore svolge verso quella concezione etnocentrica che analizza le culture «altre» a partire da una pretesa superiorità  occidentale.

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