Un detenuto muore sotto tortura
A tre giorni dalla pena lieve (7 anni di carcere) inflitta dai giudici egiziani ai due agenti responsabili nel 2010 dell’omicidio del giovane blogger di Alessandria, Khaled Said, la cronaca dell’Egitto post-rivoluzionario registra la morte in carcere, sotto tortura, di un altro detenuto, Essam Atta. Un nuovo caso che testimonia come non siano finiti gli abusi e le violenze commesse dalle forze di polizia egiziane. Atta, 24 anni, condannato da una corte militare lo scorso 25 febbraio a due anni di carcere per un reato comune, scontava la pena nel carcere di Tora. I compagni di cella hanno raccontato al «Centro al Nadim contro la violenza» che gli agenti della polizia penitenziaria lo hanno punito dopo avergli trovato addosso una sim card. Punizione che non aveva subito il mese scorso l’ex presidente del Parlamento, Fathi Sorour, detenuto anch’egli a Tora, che aveva ugualmente provato a far entrare una sim nella prigione. Atta è stato brutalmente torturato. I suoi aguzzini gli hanno infilato ripetutamente un grosso tubo nella bocca e nel retto fino a procurargli un’emorragia. Portato in fin di vita all’ospedale Kasr al Aini, il giovane detenuto si è spento dopo poco minuti.
Silenzio di tomba dei generali del Consiglio delle Forze Armate alle redini del paese, a conferma che il vecchio regime non è finito. La rivoluzione del 25 gennaio ha abbattuto Mubarak e il suo entourage ma non ha modificato il modo di pensare e di esercitare il potere. A poco è servito lo scioglimento della famigerata Amen Dawle (Sicurezza dello Stato): gli agenti, con un semplice ordine dall’alto, sono stati trasferiti nelle nuova agenzia di sicurezza nazionale. Contro tutto ciò ieri migliaia di manifestanti, mobilitati dalla «Coalizione dei Giovani Rivoluzionari» e da altre organizzazioni, si sono riuniti nella piazza simbolo Tahrir per chiedere ai militari, nel «Venerdì per la difesa della Rivoluzione», scadenze chiare e definite per il passaggio dei poteri ad un governo civile. «Sono passati otto mesi dalla caduta di Mubarak ed è evidente a tutti che il sistema politico non è caduto e che le forze armate hanno fallito nel gestire il periodo di transizione», hanno scritto i manifestanti in un comunicato. Gli egiziani che guardano al progresso del loro paese sanno che sino a quando i militari rimarranno al potere, il paese non potrà muovere il passo in avanti fatto dalla Tunisia. Il clima è sempre più teso. Cova sotto la cenere una nuova rivolta – contro il Consiglio delle Forze Armate -, lo dice anche il candidato conservatore alle presidenziali Ayman Nour, secondo cui l’insurrezione potrebbe scoppiare anche in seguito a un eventuale fallimento delle elezioni parlamentari del 28 novembre. Il voto, attraverso un lungo e complesso meccanismo, si chiuderà nel marzo 2012. Voteranno anche 8 milioni di egiziani all’estero che potrebbero dare una mano alle forze politiche laiche ritenute in netto svantaggio rispetto alle principali formazioni islamiste: il partito salafita Nour e il partito emanazione dei Fratelli Musulmani, Giustizia e Libertà .
Ma i militari non stanno a guardare. Una nuova formazione, «l’Egitto prima di tutto» ha affisso poster ovunque al Cairo e ad Alessandria con l’immagine del generale Hussein Tantawi, capo del Consiglio delle Forze Armate, ed il logo «il popolo chiede stabilità ». I fondatori stanno raccogliendo un milione di firme a sostegno della candidatura a presidente di Tantawi che, dicono, è il «candidato ideale» per la maggioranza silenziosa del paese.
Related Articles
“Da Roma 281 milioni” ecco il conto che la Ue pagherà ad Ankara per gli aiuti ai migranti
Bruxelles. La Commissione Ue studia quote per ripartire i tre miliardi promessi alla Turchia per la gestione dei profughi
L’Esodo biblico è il dolore dei migranti
Il popolo della Terra promessa non era solo ebreo ma «mucchio selvaggio» di etnie e subalterni. Da questa stessa etica l’antidoto ai disastri del razzismo
Cisgiordania. 195 palestinesi uccisi in un mese, migliaia gli arresti
Sale il bilancio degli arrestati: 2.570 dal 7 ottobre. Le campagne di arresti sono accompagnate da «torture, intensi pestaggi, minacce alle famiglie, vandalizzazione delle case e confisca dei telefoni»