Tra i volontari anti-burocrazia il miracolo degli slum indiani
NUOVA DELHI. Slum di Okhla, periferia industriale a sud di Delhi, 200 mila abitanti, in gran parte immigrati negli ultimi 40 anni. C’è una sola clinica a 4 chilometri di distanza e un ospedale a 20. Nessun bagno pubblico, solo privati a due rupie. Moltiplicate per sei o più familiari, fanno almeno 24 rupie, l’equivalente di una scodella di riso o di un piatto di samosa. Altrimenti c’è la vegetazione a un chilometro dal suburbio.
Le immagini di vita miserabile e di malattia che si presentano a ogni passo dei vicoli dove un uomo stenta a entrare dritto, sono ormai lo stereotipo dell’India lasciata indietro dal progresso, ma trasmettono sempre un senso di rassegnazione e impotenza. I rappresentanti italiani dell’organizzazione non governativa Save the Children ci hanno portato qui proprio per denunciare i pericoli di questa tendenza tra gli stessi donatori abituali. Sarebbe una catastrofe umanitaria – dicono – se i più poveri dell’India e specialmente i loro figli fossero lasciati abbandonati al loro destino.
La loro campagna chiamata “Every One”, “Tutti”, era partita nel 2009 per finanziare alcuni programmi mirati di microassistenza sanitaria in grado di far funzionare una rete specializzata di operatori esperti nell’individuare i rimedi per le malattie contratte in gravidanza e dopo. Ma anche per indirizzare la gente verso gli uffici giusti dove ottenere i diritti stabiliti da innumerevoli leggi indiane, raramente applicate alla lettera per via dell’ignoranza. Dicono che è spesso questa – e non la fame – la vera causa del record di decessi infantili dell’India,
Da migliaia di villaggi rurali e sobborghi metropolitani indiani, del tutto simili a quelli di Okhla o del Golfo di Diamante a Kolkata, proviene il 30 per cento dei bambini morti ogni anno per malattie sotto i cinque anni nell’intero globo, ben otto milioni. “Every One” è una iniziativa che ha già salvato milioni di vite, ma che dipende esclusivamente dai donatori. Il sistema di quest’anno funziona con delle carovane di “palloncini rossi” con la scritta “Salvami” in giro per l’Italia, e un numero dove inviare sms che fino al 6 novembre accrediteranno due euro nelle casse della ong. Il loro intervento è affidato a una serie di attiviste locali – specialmente donne – cresciute con i problemi di tutti e diventate con il tempo consigliere e psicologhe. Passano ore e ore nella stanza tugurio dove gli immigrati vivono in sei e spesso otto in due metri per due, una stuoia o una coperta a ripararli dal cemento.
Meglio però qui che in Bihar o Jarkhand, dove le speranze di mangiare tutti i giorni sono ancora di meno. E dove servizi sociali come quello di Save the Children sono distribuiti in un territorio enorme e densamente popolato. Durante il tragitto nel girone infernale dello slum ci accompagnano due signore figlie di immigrati che sono nate qui. Conoscono tutti e parlano con le donne per convincerle a perdere un po’ di tempo a imparare piccoli e facili trucchi, igienici e anche burocratici per salvare la vita dei loro figli più deboli.
Se qui a Delhi le organizzazioni partner di Save the Children assistono la popolazione dello slum attraverso il monitoraggio casa per casa, alla periferia di Kolkata ospitano madri e figli in una villa coloniale con laghetto e verde intenso. Vengono distribuite medicine e vitamine per madri incinte e bambini piccoli, pasti e check-up di donne e figli per stabilire il livello di malnutrizione e anemia. Quelle gravi sono trattate direttamente in ospedale, per le altre si insegna alle mamme come preparare cibo nutriente con poca spesa.
Secondo Save the Children «nello slum di Okhla circa il 40% dei bambini è malnutrito e i tassi mortalità infantile sono di 70 ogni 1000 nati vivi». Una storia tra tutte, quella della musulmana del Bihar Juhi Paruin, che ha perso due figli in grembo, uno dopo pochi mesi di vita e ora ne aspetta un quarto con la spada di Damocle di una minaccia. «O ce la fai stavolta a farlo sano, o mio figlio prenderà un’altra moglie», le ha detto senza mezzi termini sua suocera. Juhi è una delle donne convinte dalle assistenti – di nascosto dal marito – a farsi visitare l’anemia nella clinica mobile e a prendere le medicine giuste.
«La campagna per aumentare gli operatori sanitari – spiegano i dirigenti di Save the Children – è il modo più diretto ed efficace di reagire alla rassegnazione, e vogliamo portare il loro numero dagli attuali 85 mila a 400 mila». Serviranno a salvare due milioni e mezzo di bambini entro il 2015, e a nutrire almeno durante la gravidanza e l’allattamento oltre 50 milioni di madri.
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