Tarantini accusa Lavitola: mi ha inguaiato

by Sergio Segio | 15 Ottobre 2011 6:46

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ROMA – In una deposizione che sembra debba non finire mai, cominciata con la luce del primo pomeriggio e finita a notte fonda, Gianpaolo Tarantini risponde per oltre otto ore alle domande del procuratore aggiunto Pietro Saviotti e del sostituto Simona Marazza, che lo accusano di estorsione ai danni del Presidente del Consiglio. E a loro consegna lo stesso canovaccio difensivo che, il 3 settembre scorso, da detenuto nel carcere di Poggioreale, aveva affidato alla valutazione del gip di Napoli Amelia Primavera nelle 95 pagine di verbale del suo interrogatorio di garanzia. La “verità ” del ruffiano del Premier, ora assistito dagli avvocati Alessandro Diddi, Piegerardo Santoro e Ivan Filippelli, resta dunque sostanzialmente quella che conoscevamo. E, all’osso, suona così. «Non ho mai ricattato il premier, né ho mai pensato di farlo. Dopo un anno di arresti domiciliari, la mia situazione familiare era drammatica e, nel 2010, attraverso i buoni uffici di Valter Lavitola, che a suo dire aveva ricevuto l’input dal Presidente di occuparsi del sottoscritto, ho ricevuto un sostegno materiale». In un anno solare, un milione di euro, centesimo più, centesimo meno. Tra spese legali, affitto della casa abitata a Roma, argent de poche (3.500 euro a settimana), vacanze in quel di Cortina (10 mila euro), stipendi per un impiego fittizio presso la cooperativa “Andromeda” e un prestito “d’onore” di 500 mila euro per rimettersi a fare l’imprenditore.
Di mascalzone, insomma, in questa storia ce ne sarebbe uno solo. E – a dire di Tarantini – non è né lui, né sua moglie Angela Devenuto, né il Presidente del Consiglio, ma piuttosto il suo spicciafaccende Valter Lavitola. È lui («conosciuto casualmente a “Villa Flaminia”, la scuola privata che frequentano i nostri figli») che, nel 2010, si propone come unico tramite per «riallacciare» i rapporti con il Presidente dopo un anno di «silenzi». È lui che lo accompagna la prima volta nello studio dell’avvocato Giorgio Perroni (suggerito da Nicolò Ghedini e subentrato a Nico D’Ascola). È lui, come un topo nel formaggio, che “gratta” sulle provviste elargite dal Premier, finendo per inguattarsi i 500 mila euro che dovrebbero rimetterlo al mondo. È lui che, l’estate scorsa, a ridosso della chiusura indagine di Bari sulle escort, lo eccita telefonicamente, suggerendogli strategie difensive dell’ultim’ora che dovrebbero mettere pressione al Presidente e consigliargli di aprire ancora un po’ i già  larghissimi cordoni della borsa.
Naturalmente, perché la storia – questa “straziante” storia di «disgrazia nella disgrazia» – tenga, Tarantini torna a giurare di non aver mentito ai pubblici ministeri di Bari. Di non aver insomma aggiustato le sue dichiarazioni per risparmiare imbarazzi politici e guai giudiziari al suo «amico» e “cliente” Silvio Berlusconi. E a costo ormai di sfidare, insieme all’evidenza degli atti di indagine, anche il buon senso, torna a ripetere che il Premier nulla sapeva che la fila di ragazze alla porta delle sue residenze aveva un costo. Peccato che Tarantini non riesca ancora a spiegare in modo plausibile per quale motivo i suoi avvocati, dal giorno uno del processo, siano stati scelti e pagati dal Premier. Per quale ragione, dal giorno in cui lasciò Bari, dopo l’outing della D’Addario, per trasferirsi a Roma, non abbia mai dovuto occuparsi di un affitto.
Forse perché una risposta non è in grado di darla. O forse perché la risposta farebbe venire giù come un castello di carte la sua storia. Cui del resto non ha creduto fino a ieri Napoli, e non crede oggi Bari. Dove, ieri, il gip Sergio Di Paola ha depositato la nuova ordinanza di custodia cautelare per il latitante Valter Lavitola. Tre paginette cui è allegato il provvedimento originario del Riesame partenopeo del 26 settembre scorso per «concorso nel reato di induzione alla falsa testimonianza».

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