Sul raìs ha vinto la dottrina Obama e già  si aspetta il prossimo a cadere

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NEW york – «Dopo quasi nove anni la guerra in Iraq è finita». A 24 ore dalla morte di Gheddafi, Barack Obama annuncia il «ritiro totale entro la fine dell’anno» dall’altra guerra, quella di George Bush. Mentre tutti s’interrogano su “chi sarà  il prossimo” – e già  iniziano le pressioni perché sia la Siria, o l’Iran, il nuovo bersaglio nell’effetto domino – è già  tempo di bilanci per la “dottrina Obama sul Medio Oriente”. Controversa, criticatissima, perfino sbeffeggiata, soprattutto dalla destra americana. Proprio sulla Libia i suoi avversari avevano fatto una caricatura di questa strategia della “guerra minima”, dipingendo un presidente “che guida dalle retrovie” lasciando a Francia e Inghilterra un ruolo di punta nelle operazioni militari. È vero che sembrava esserci un tono rinunciatario, in quella presa d’atto che l’America non può più essere il gendarme del mondo, che gli interventi militari vanno commisurati a un’economia in declino, che le sue responsabilità  all’estero devono esercitarsi in modo condiviso. Ora però il bilancio della dottrina Obama appare di tutto rispetto, e il ritiro dall’Iraq ne arricchisce l’ultimo dividendo. Non gliene darà  atto la destra – siamo ormai in campagna elettorale, il fair-play è escluso – ma sui mass media indipendenti il verdetto è unanime e positivo. Anche se è già  cominciato l’esercizio successivo: prevedere quale sarà  il prossimo test, il teatro di crisi del mondo arabo che presenterà  le sfide più urgenti.
La dottrina Obama di cui oggi si trae un bilancio non è solo quella della “guerra minima” applicata alla Libia, anche se questa si presta a confronti esemplari: quanto tempo ci volle a Bush per far fuori Saddam Hussein, con quale dispendio di risorse umane ed economiche, in confronto alla liquidazione del raìs di Tripoli? L’annuncio del ritiro dall’Iraq serve a sottolineare questa sproporzione: eliminare il carnefice di innocenti passeggeri americani sul volo Pan Am sopra Lockerbie è costato circa l’uno per mille rispetto al budget del conflitto iracheno. Ma la dottrina Obama è molto di più. Viene inaugurata dal discorso all’università  del Cairo (4 giugno 2009) che segna l’apertura di un dialogo a tutto campo, anche sui valori, e una svolta rispetto ai toni da crociata di Bush. Non a caso per la destra il discorso del 2009 è un simbolo di “cedimento, arrendevolezza”. A posteriori, invece, proprio in quelle parole alcuni hanno visto i germi degli eventi di Tunisi e del Cairo: perché le opinioni pubbliche del Nordafrica hanno intuito che l’America non avrebbe puntellato per sempre le dittature alleate.
Quello è il tassello successivo della dottrina Obama: la rapidità  con cui la Casa Bianca abbandona al loro destino i despoti contestati dai popoli. Una scelta ben diversa rispetto all’ostinazione con cui un altro presidente democratico pur sensibile ai diritti umani, Jimmy Carter, aveva puntellato il regime dello Scià  di Persia (poi pagando un prezzo altissimo per quell’errore). Ma anche questo aspetto della dottrina Obama è tutt’altro che pacifico: da Netanyahu ai falchi repubblicani, molti continuano a rimproverargli di avere mollato Mubarak consegnando l’Egitto a un destino incerto e forse anti-israeliano. Perciò ora il presidente viene strattonato in più direzioni. La sinistra considera che il prossimo obiettivo deve essere Damasco perché in Siria vede una tragedia umanitaria simile a quella libica. Per la destra repubblicana e il governo Netanyahu invece il nemico più serio da affrontare è l’Iran. Obama però sa che non verrà  giudicato solo sugli eventi futuri in Siria, Iran, Yemen, ma anche sugli sviluppi in quei paesi dove ha raccolto successi molto provvisori. Per Tunisia ed Egitto il presidente aveva proposto un piano Marhsall, al G8 di Deauville: per incanalare la transizione democratica, offrendo concrete prospettive di sviluppo economico. Quel cantiere è rimasto fermo, i rischi di instabilità  e l’avvento di forze islamiche ostili all’Occidente sono ancora degli esiti possibili in ognuno di quei paesi.


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