by Sergio Segio | 18 Ottobre 2011 6:56
PALERMO. Oggi sappiamo perché, al tempo delle stragi, c’è stata una trattativa con la mafia. Sappiamo che non l’ha voluta Totò Riina, ma l’ha voluta lo Stato: per salvare la vita di alcuni uomini politici. Erano in una lista nera. Un elenco di ministri.
E fra loro c’era anche – come riportava una nota del Viminale alla fine dell’inverno 1992 – quello che veniva considerato «il futuro presidente della Repubblica», ossia Giulio Andreotti.
Dopo diciannove anni avvolti nell’omertà e nei depistaggi, su quel patto segreto i procuratori di Palermo stanno seguendo una pista che porta dritta a una conclusione: con l’uccisione dell’eurodeputato siciliano Salvo Lima e quella di Giovanni Falcone qualcuno era finito anche lui nel mirino dei Corleonesi e così ha ordinato – a uomini di fiducia dei reparti investigativi – di agganciare i boss per fermare i sicari e salvarsi la pelle. Pezzi da novanta della politica che i mafiosi – a torto o a ragione – consideravano «traditori». Amici o complici che non avevano rispettato accordi antichi, gente che in passato si era presa i voti di Cosa Nostra e poi aveva dimenticato tutto.
La lista nera che hanno ricostruito i magistrati è il risultato di una lunghissima attività istruttoria iniziata nella primavera del 2009 e che è stata completata con l’acquisizione, un mese e mezzo fa, di un documento del ministero dell’Interno su «strategie destabilizzanti» ed «eventi omicidiari» che nel 1992 avrebbero insanguinato il Paese. Il documento – di cui leggerete alcuni stralci qualche riga più sotto – è diventato pubblico il 10 ottobre scorso, depositato dai pm al processo contro il generale Mario Mori accusato di avere favorito la latitanza di Bernardo Provenzano. Un dibattimento che è diventato, di fatto, un «pezzo» della trattativa fra Stato e mafia.
Ma torniamo all’elenco dei bersagli della mafia scoperti dagli investigatori. Si apre con quello che era allora il ministro per gli interventi straordinari per il Mezzogiorno Calogero Mannino, un ras in Sicilia. E poi Carlo Vizzini, palermitano, ministro delle Poste e Telecomunicazioni. Il ministro della Giustizia Claudio Martelli, che da poco più di un anno aveva chiamato accanto a sé Giovanni Falcone come direttore generale degli Affari penali al ministero di via Arenula. E Salvo Andò, catanese, socialista, ministro della Difesa. C’era anche Sebastiano Purpura, un politico siciliano che 19 anni fa era assessore regionale al Bilancio e soprattutto era un fedelissimo di Salvo Lima.
Sono loro i primi nomi che compaiono nell’indagine dei magistrati di Palermo. Dalla montagna di carte – centinaia di interrogatori, confronti all’americana, deposizione di pentiti, sequestro di atti – sul negoziato cominciato subito dopo la strage Falcone e poco prima della strage Borsellino è affiorato il «movente», probabilmente è stata individuata la ragione che ha portato uomini degli apparati ad avvicinare personaggi come l’ex sindaco mafioso Vito Ciancimino e che ha convinto successivamente lo stesso Totò Riina a scrivere il «papello», quella piattaforma di rivendicazioni giudiziarie e carcerarie in favore di Cosa Nostra da sottoporre allo Stato. Sconti di pena, revisione del maxi processo, abolizione del carcere duro in cambio del silenzio delle armi.
Il filo che seguono i pm siciliani – indagano Antonio Ingroia, Nino Di Matteo, Lia Sava e Paolo Guido – parte dagli omicidi Lima e Falcone. Lima, uomo vicino a Cosa Nostra e vicerè nell’isola di Giulio Andreotti, viene ucciso il 12 marzo 1992. Fatto fuori dai Corleonesi perché «non ha rispettato i patti».
L’omicidio Lima cambia per sempre la storia di Palermo e fa saltare tutti gli equilibri politici in Italia. Il primo che paga un altro conto – che poi è sempre lo stesso – è Giulio Andreotti, presidente del Consiglio per la settima volta in quel 1992 e in pole position per l’elezione di fine primavera alla presidenza della Repubblica. Ma il delitto Lima lo «brucia», gli sbarra per sempre la strada per il Quirinale dove il 24 maggio – dopo tante fumate nere e a ventiquattro ore dalla strage di Capaci – salirà Oscar Luigi Scalfaro.
È comunque già subito dopo il delitto Lima che il ministero dell’Interno, a firma del potentissimo capo della polizia Vincenzo Parisi, dirama un telegramma di due pagine indirizzato a tutti i prefetti e a tutti i questori, all’alto commissario per la lotta alla mafia, al direttore della Dia, ai capi del servizio segreto civile e a quello militare, ai carabinieri e alla finanza.
Porta la data del 16 marzo del 1992. Il capo della polizia cita alcune fonti che annunciano «nel periodo marzo-luglio corrente anno, campagna terroristica con omicidi esponenti Dc, Psi et Pds, nonché sequestro et omicidio futuro presidente della Repubblica. Quadro strategia comprendente anche episodi stragisti». Più avanti il telegramma di Parisi invita «at più attenta vigilanza» per il ministro Calogero Mannino e per il ministro Carlo Vizzini.
Quello di Parisi non è un «avviso» di routine. Ed è subito evidente. Passano quattro giorni e il ministro dell’Interno Vincenzo Scotti riferisce di «un piano destabilizzante» in un’audizione alla commissione Affari Costituzionali del Senato. Ma tutti danno addosso a Scotti. Non gli credono. C’è anche una misteriosa fuga di notizie sul telegramma di Parisi e salta fuori il nome di una delle «fonti confidenziali» che segnala gli attentati: è un detenuto, tale Elio Ciolini, con un passato di depistatore e calunniatore. Probabilmente Parisi, oltre a Ciolini, ha altre «fonti». Ma il suo allarme cade incredibilmente nel vuoto.
Il presidente del Consiglio Andreotti si precipita a parlare «dello scherzo di un pataccaro», il presidente della Repubblica Cossiga ridimensiona il pericolo. Come siano andate le cose poi, è noto. Dopo Lima, il 23 maggio 1992 c’è la strage di Capaci. Dopo Falcone, il 19 luglio 1992, c’è la strage di via Mariano D’Amelio. È fra Capaci e via Mariano D’Amelio – ne sono convinti i procuratori di Palermo – che inizia la trattativa fra Stato e mafia. Paolo Borsellino ne viene a conoscenza, si mette di traverso e lo uccidono.
Nei giorni e nei mesi successivi accade molto altro, fra Roma e Palermo. Vincenzo Scotti, che l’8 giugno insieme al Guardasigilli Martelli firma un decreto (il 41 bis) per il carcere duro ai mafiosi, a inizio luglio è improvvisamente dirottato alla Farnesina e il suo posto all’Interno è preso da Nicola Mancino. Neanche un anno dopo Giulio Andreotti finisce sotto processo per mafia e alla fine si salverà con una prescrizione. Totò Riina viene venduto e catturato in circostanze misteriosissime nel gennaio 1993. E così Cosa Nostra, senza più delitti eccellenti, assicura allo Stato italiano una lunga stagione di «pace».
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