Steve Jobs. Il genio che inventò il futuro

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Steve Jobs è morto. Steve Jobs è diventato immortale. Come ai guerrieri delle Grandi Praterie che si dissolvono nella polvere della terra lasciandosi dietro l’immortalità  del mito, anche a questo “Cavallo Pazzo” che ha inventato la tribù della Mela, il destino ha risparmiato l’umiliazione del tempo.
Nessuna azienda è mai regina per sempre, neppure la General Motors che osava identificarsi con l’America intera, e anche la Apple conoscerà  il proprio tramonto, un giorno. Ma i miti non muoiono mai. Ora Jobs potrà  restare un fool, come predicò ai giovani nel suo testamento pubblico agli studenti di Stanford, un divino matto per sempre.
Se gli dei riservano a coloro che amano il privilegio di morire giovani, Steven Paul Jobs ha ricevuto la grazia di andarsene non proprio giovanissimo, a 56 anni, ma non vecchio. Allo zenit di un’avventura che aveva fatto del figlio respinto dai genitori naturali e affidato come il Mosè della Bibbia al grande fiume delle adozioni, il presidente e creatore della più ricca azienda del mondo, con 76 miliardi di dollari di riserve liquide in cassa, più del Tesoro Usa. Eppure nessuno, neppure i suoi avversari e critici più aspri, come i Page e i Brin di Google impegnati nella guerra degli smartphone fra Android e iPhone, come Michael Dell della Dell Computers che dieci anni orsono aveva consigliato di vendere tutte le azioni della Apple, come i cinesi della Htc o i coreani della Samsung, come i clienti e gli utilizzatori dei suoi prodotti, ha mai pensato a Steve Jobs come a un uomo ricco.
Nella “chanson de Steve”, come nella saga di Crazy Horse o degli immaginari Paladini di Re Artù, la dimensione della materialità , potere, soldi, cavalli, fama, amori – e non pochi amori, da una chiacchierata relazione con Joan Baez alla prima figlia con una pittrice di San Francisco fino alla moglie Laurene Powell sposa da un monaco buddista nel 1991 che lo ha accompagnato alla morte con le due figlie e un figlio – non esiste. Sembra che la sua avventura materiale si sia fermata a quei 10mila dollari raccattati per assembleare il primo motherboard, il primo circuito madre, nel garage dei genitori adottivi insieme con Steve Wozniak per passare subito a una dimensione di immaterialità  così spaventosamente, e così graficamente, rappresentata dal suo corpo sempre più evanescente. Di quale altro personaggio umano non si direbbe che è ricco sfondato quando muore con un portafoglio privato da otto miliardi di dollari? Non di Jobs, al quale mai era stato chiesto di destinare ricchezze a opere di bene, come al suo amico-rivale Bill Gates costretto a dedicare tempo e fortune a imprese come la lotta alla malaria e alla dissenteria endemica anche per migliorare la propria immagine di “cavaliere nero” dell’informatica a uso personale. Il cavaliere bianco Steve, il primo a capire che era cominciata l’era dell'”Interpersonal Computer”, la macchina per comunicare con il resto del mondo, non ne aveva bisogno. Aveva pagato, secondo i canoni del mito, tutte le tariffe necessarie per purificare per sempre la propria vita di imprenditore e di maestro del marketing. L’adolescenza vaga e inquieta, culminata con l’abbandono degli studi universitari prima della laurea e il pellegrinaggio da “sandalista” ai piedi dei guru buddisti, per convertirsi al misticismo orientale, che lo ha messo per sempre al sicuro da rancori religiosi. Nessuno odia un buddista, nessun buddista condurrebbe mai sanguinarie crociate o feroci jihad.
Ha spezzato il pane degli hippy nella San Francisco di Haight-Ashbury Anni ’70, viaggiando sulle strade dei “trip” a base di acido lisergico, Lsd, per ampliare la sfera della coscienza, un’avventura che lui non rinnegò mai, anzi vantò. È diventato “pescetarian”, vegetariano ma non dogmatico, disposto a mangiar pesce. Ha conosciuto l’estasi della vittoria, con il suo primo Pc di successo, il Lisa II e poi con il primo Mac, il 128k del 1984 e poi l’agonia della disfatta quando proprio colui che aveva portato via alla Pepsi Cola, Sculley, lo fece cacciare dalla tribù. Ha mangiato le mele nelle comuni dell’Oregon, con i figli dei fiori, traendo da quel frutto, e dalla sua dichiarata venerazione per i Beatles – altro connotato essenziale – il simbolo della mela addentata, che un grafico creò per lui. E naturalmente, dopo la cacciata dal tempio degli ingrati, ci fu il ritorno trionfale da salvatore, con la parola salvifica del nuovo computer da lui creato, il NeXT, che fu un mezzo disastro commerciale, ma sarebbe diventato l’anima della nuova generazione dei Mac Os X.
Non era affatto un boss delizioso o ideale, l’ex hippy convertito alla produttività  e dunque divenuto implacabile come gli ex fumatori o gli ex obesi con i peccatori. Aveva due sole velocità , dicevano i collaboratori, tutta avanti o tutta indietro. Nel campus della Apple, ognuno, dall’ultimo stagista al capo divisione, tremavano nel pigiare il tasto dell’ascensore temendo di vedere apparire lui, “Crazy Horse”, dietro le porte e di essere riconosciuti come quello che aveva combinato un guaio. «Fired!» licenziato, esplodeva il guerriero capo. Fuori dalla tribù. Nella realtà , fra i 75 mila dipendenti che la Apple ha nel mondo, questa esecuzione sommaria pare sia accaduta soltanto due volte, una recentemente per il pasticcio dell’antenna dell’iPhone 4. Ma due volte sono bastate per perfezionare il mito del profeta terribile. Tutto, anche i difetti, contribuiva ad accrescere il culto.
Una perfezione che la morte ha definitivamente sottratto al noioso scrutinio della quotidianità  e che gli ha concesso un lungo, struggente crepuscolo di autoconsunzione, vissuto nel suo immancabile maglioncino nero St. Croix da 300 dollari, filato di lane e cotoni esclusivi e rari, ordinari 501 Levis e sneakers New Balance. Non esattamente una mise da saio, ma politicamente accettabile. Da lui si accettavano apparenti violazioni dei codici morali dei devoti del MacWorld, del Mondo Mac, come la sua Mercedes Amg, la versione superpotenziata e sportiva della già  robusta auto tedesca, ben lontana da quelle sobrie macchinette ibride e frugali che segnalano coscienza ecologista. Passavano inosservati, o non criticati, acquisti immobiliari stravaganti, come gli ultimi due piani interi della San Remo Tower a Manhattan, il palazzo lussuoso dove vivono luminari dello spettacolo e del progressismo americano, come Spielberg, accanto alla figlia dell’Aga Khan. Un alloggio affidato per la completa ristrutturazione al leggendario e prodigiosamente costoso architetto I. M. Pei, che impiegò dieci anni per completarlo e dove Jobs non abitò un solo giorno, rivendendolo.
Ma qui, nel suo essere, o nel suo sapersi presentare, come il guru, il guerriero foolish di una controcultura divenuta cultura mainstream, di massa, dopo la promessa fatta nel 1984 di essere lo schiavo ribelle contro il Grande Fratello, c’era la sua impareggiabile abilità . E la sua intuizione. Chi riesce a presentarsi come un “out” mentre diventa “in” avrà  meritato enorme successo nel tempo che vorrebbe sentirsi controcorrente e non si accorge di nuotare con la corrente. Il Jobs che inventa l’universo chiuso del MacMondo, che controlla e seleziona a proprio insindacabile giudizio quale musica, quali film, quali “app”, quali programmini si possano scaricare nel proprio “negozio” virtuale, che crea i templi dove intonare il “venite adoremus” all’uscita di prodotti nuovi o rinfrescati, gli Apple Store che ormai coprono il mondo da Catania a Hong Kong, da Bologna a Pechino, è il Lutero che diventa anche Papa. È il monaco riformato che riesce a salire sul soglio di Pietro senza perdere la mistica dell’eretico.
Quanto avrebbe retto ancora fra eresia e ortodossia, ora che altre tribù premono, assediano, magari copiano (essendo il copiare la più sincera forma di ammirazione) la mistica della Mela? Già  scoppiavano cause, querele, sentenze, ingiunzioni per difendere i quasi 400 brevetti ottenuti dal Convento di San Bernardo di Cupertino, il campus della Apple, rogne di avvocati, tribunali, controquerele, risse di antitrust e di autorità  pubbliche contro i fallosissimi e spregiudicati cinesi, contro la sempre più aggressiva Google, contro il gigante che ha dormito a lungo e tenta di scuotersi, la Microsoft di Gates. Brutte storie, graffi di unghie sul vetro degli iPhone e iPad, come i suicidi degli operai cinesi alla fabbrica Foxconn, che preferivano buttarsi sotto piuttosto che subire i ritmi di lavoro e le paghe miserabili necessarie per sostenere la domanda, e tenere bassi i costi, della meravigliosa “oggettistica” della Apple.
Anche la bellezza finora ineguagliata del mondo Mac e Apple non sarebbe rimasta ineguagliata per sempre, ora che anche i più stolidi concorrenti hanno capito che una cosa bella sembra funzionare meglio di una cosa brutta, come un tempo sapevano i designer e i carrozzieri italiani. Ricordando quello che tutti sappiamo, che una macchina lavata cammina sempre più veloce di una macchina infangata. Tutta questa miseria di avvocati e tribunali, di brevetti e di biografie non autorizzate, queste storie di una figlia non riconosciuta sostenendo – bugiardamente – di essere sterile, l’odio per il padre naturale, siriano immigrato, che Steve rifiutò di vedere e perdonare anche in fin di vita, non potranno mai più scalfire la cristallina bellezza di ciò che ha creato. Ha reso eccezionale il banale, seducente la tecnologia più oscura, eccitante anche il messaggino a casa e la foto del bebè. Forse siamo stati davvero foolish, come ci voleva lui, un po’ folli e un po’ fessi, noi che ci siamo convertiti, a volte fin dalla prima predica nel 1984, alla chiesa della Divina Mela. Ma è stato bello fino a quando è durato. Thank you, mister Jobs. Spegni.


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