Siria, l’ira dell’Occidente per il veto di Russia e Cina

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PECHINO — Gli amici si vedono nel momento del bisogno. E della Siria, che da mesi resiste con la repressione a una rivolta popolare costata 2.700 morti, la Cina e la Russia sono amici. Lo hanno dimostrato a New York, quando il doppio veto di Pechino e di Mosca ha affossato una risoluzione di condanna a Damasco. Stilato dall’Europa, il documento prefigurava possibili sanzioni Onu contro il regime di Bashar Assad. Inutili i nove voti a favore, irrilevanti le quattro astensioni. Decisiva l’accoppiata Mosca-Pechino, il cui veto congiunto si era rimaterializzato dopo 35 anni nel gennaio 2007, quando bloccò una risoluzione destinata a colpire la Birmania. Mentre la Turchia annuncia le sue sanzioni, l’Occidente reagisce indignato. Gli Usa additano «il facile trucchetto di chi preferisce vendere armi al regime siriano piuttosto che parteggiare per il popolo». Il ministro degli Esteri francese Alain Juppé parla di «un giorno triste per i siriani», parole simili impiega Franco Frattini, l’omologo britannico William Hague sferza chi sta «con un regime brutale» e «avrà  il veto sulla coscienza».

Provando a spiegare, l’ambasciatore russo all’Onu ha esplicitato i timori di uno scenario libico prodotto da una «filosofia della contrapposizione», anche se poi il suo ministero ha precisato che «non siamo gli avvocati di Assad». Pechino si appella alla «non interferenza», aggiungendo: «Mettere pressione ciecamente» alla Siria «non serve ad alleviare la situazione». Tra le primavere arabe, la crisi siriana appare a Pechino forse come la più inquietante perché — tra l’altro — la natura del regime di Assad, con un partito unico di matrice socialisteggiante, non è così distante dalla struttura del potere della Repubblica Popolare, fatte le debite proporzioni e considerate le differenze.

Quella manifestatasi a New York fra Cina e Russia non è però un’alleanza strategica ma una sorta di alleanza tattica. Interessi comuni a breve termine, ora: in prospettiva, invece, tutt’altro che coincidenti. I motivi di competizione fra Pechino e Mosca abbondano. Esempio: a una settimana dalla visita del premier Vladimir Putin a Pechino, ieri i media russi hanno rivelato l’arresto nel 2010 di un cinese, ufficialmente interprete, che avrebbe tentato di acquisire informazioni sul sistema missilistico S-300.

La rivalità  fra i due Paesi si dispiega ben oltre le sabbie siriane, dove entrambi hanno ottenuto concessioni petrolifere. La crescita cinese, con un’economia non senza problemi ma variegata e aggressiva, sottolinea le fragilità  strutturali della Russia. I Paesi dell’Asia centrale, già  pezzi di Urss, guardano a Pechino. La Cina è interessata a tecnologia avanzata che Mosca invece teme di veder copiata. Gli accordi chiave per l’export di gas russo rimangono in sospeso, mentre la Repubblica Popolare diversifica i suoi fornitori.

Infine — come ha rilevato lunedì scorso un dossier dello Stockholm international peace research institute — «Cina e Russia non condividono una sostanziale visione del mondo»: è vero, «non amano l’idea di un mondo unipolare» e prendono decisioni simili in contrapposizione agli Usa, ma entrambi puntano sull’America come su un partner esclusivo e fondamentale. E i corteggiamenti contrapposti fanno sì che «ciascuno veda l’altro, nel lungo termine, come una minaccia strategica». A Damasco, però, non importa. Ieri festeggiava: «Una giornata storica».


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