Se il capitalismo impazzisce “lasciate fare” allo Stato
Milton Friedman, premio Nobel per l’Economia, sosteneva: «La grande virtù del libero mercato è che il sistema non si cura minimamente del colore della pelle degli individui; non si interessa affatto di che religione professino; l’unica cosa che conta è la capacità di produrre le merci che altri sono interessati ad acquistare». Sotto questa bandiera dell’internazionalismo capitalistico torna Dambisa Moyo con un nuovo libro che suona le campane a morto dell’Occidente e celebra, appunto, il fatto che il capitalismo, nel suo supremo menefreghismo di ogni dettame etico e sociale, ha raggiunto e rafforzato i punti una volta più lontani (e forse più sottovalutati e disprezzati) da quello stesso Occidente: i Paesi emergenti, la Cina in particolare.
La Moyo, nata in Zambia, con dottorato in Economia a Oxford e master a Harvard, carriera lunga dieci anni con Goldman Sachs, cioè il cuore dell’ investment banking mondiale, è diventata giustamente famosa per un libro, La carità che uccide. Come gli aiuti dell’Occidente stanno devastando il Terzo mondo (Rizzoli, 2010), nel quale ha avuto il coraggio, in un’epoca in cui dominavano i concerti live aid per incitare l’Occidente a donare all’Africa, di dire che la carità , cioè l’assistenzialismo, ha distrutto il continente perché crea dipendenza psicologica e materiale («sessant’anni, un miliardo di dollari di aiuti all’Africa e non molti risultati positivi da mostrare»), a differenza della «paritarietà » con cui opera il mercato. Idea coraggiosa, che portava alla luce un dibattito che già si era aperto in Occidente, ma che nessuno, se non una economista di origine africana, poteva spiattellare senza essere accusato di cinismo.
Meno di rottura questo secondo saggio, La follia dell’Occidente. Come cinquant’anni di decisioni sbagliate hanno distrutto la nostra economia (Rizzoli), meno provocatorio del primo, fin dal suo titolo. Vi si racconta la crisi economica e di egemonia dell’Occidente – in realtà parla soprattutto degli Usa – e compara impietosamente i successi delle economie emergenti con il nostro declino. Fin qui nulla di nuovo. Interessante è invece la conclusione, quasi rovesciata rispetto all’approccio tradizionale, a favore della libertà di mercato, «di destra» o «conservatore» direbbe qualcuno, che ispirava il primo libro. In questo secondo testo Moyo approda a una enorme e non nascosta ammirazione (economica) per la Cina.
Dopo aver distinto almeno tre forme di capitalismo – quello del laissezfaire americano, quello europeo di mercato corretto dalla presenza dello Stato e quello dei Paesi emergenti in cui lo Stato «guida» totalmente il mercato – l’economista africana tesse l’elogio di quest’ultimo modello. Della Cina in particolare. Una nazione che investe in Africa, che tratta sul petrolio evitando l’Occidente, che compra il debito americano e che si prepara alla scarsità futura di risorse naturali, dalle materie prime a quelle alimentari. L’idea, nemmeno tanto sottintesa, è che solo uno Stato, cioè un organismo collettivo pubblico e di lunga vita (si suppone) può avere tale previdenza.
Anche in questo caso Dambisa Moyo dà voce a molte idee che già circolano nel mondo degli studiosi: la più importante è la rottura della totale coincidenza tra forma politica (la democrazia) e vitalità del mercato, un binomio considerato ferreo dalle nostre teorie fino a pochi anni fa. In questo senso, dunque, di nuovo l’autrice si pone nei punti più interessanti del dibattito. Questa volta però non ci sorprende perché la crisi la conosciamo in prima persona. Ci piacerebbe sapere di più sul futuro, su dove stiamo andando. Ma su questo l’economista tiene prudentemente aperti tutti gli scenari: compreso, un po’ pilatescamente, il fallimento della Cina.
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