Sassi, vodka (e fucili nascosti) La guerra delle dogane serbe

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JARINJE (Kosovo Nord) — Eccolo, il confine. Si supera il cumulo di terra, smossa da un bulldozer e riposta ai lati della strada, ciò che resta della barricata dove sventolava la bandiera serba, e si arriva al filo spinato. Di là , due plotoni di militari internazionali della Kfor, i mitra in mano, gli elicotteri sulla collina, presidiano questo che doveva essere un valico «aperto», Kosovo-Serbia, come i migliaia che attraversano l’Europa. Invece, il «Gate 1» di Jarinje è diventato un check-point militare, che da queste parti è già  un ricordo (no, nessuno osa dire presagio) di guerra.

Bisogna salire al nord, in questa regione abitata solo da serbi (50mila dei 130mila rimasti dopo la guerra), per capire l’ultima crisi del Kosovo. La «crisi delle dogane». Tutto inizia il 16 luglio, quando il premier kosovaro Hashim Thaci manda i poliziotti a prender possesso di due confini (i «gate» 1 e 31) che il suo governo non ha mai controllato, e che Belgrado non riconosce. Una disfatta: i serbi kosovari si ribellano, un agente albanese viene ucciso. Settimane di trattative, l’Ue fa da paciere: e Belgrado per la prima volta dall’indipendenza di Pristina del 2008 accetta che le merci kosovare entrino nel suo territorio, con il timbro «Dogana Kosovo» (senza la parola «Republika»).

Ma quando, a metà  settembre, i doganieri, stavolta in squadra con funzionari europei e protetti dalla Kfor, ci riprovano, istituendo i valichi, è rivolta. Va bene i timbri — dicono i serbi — non i doganieri. E ancora: non ci avete avvisato, è un blitz. Il loro ragionamento è semplice. Vogliono i confini? Allora noi creiamo blocchi e barricate, il Nord è nostro, «no pasaran». E infatti, doganieri e soldati quassù arrivano in elicottero. Più giù, fino al capoluogo Mitrovica, le strade costeggiate di poster di Putin e del tennista Djokovic, sono un percorso a ostacoli. Lungo i presidi, vigili urbani e volontari. Sui manifesti plastificati, il programma: «No alla dogana di Thaci», «Kosovo è Serbia», «Rispettate la risoluzione 1244» (quando dice che il Kosovo resta in territorio jugoslavo, ndr). Una tenda militare serve da sala riunioni. «Chi siamo? Tutti». «Che abbiamo? Sassi e vodka», ride Vesna (falso: al nord le armi sono molte). Slivovica di notte deve scorrerne a fiumi. «Aviano, Aviano», ricorda qualcuno, citando la base su territorio italiano da dove partivano le bombe Nato. E sembra che sotto questa tenda, dove ci si istiga a vicenda, come dice Petar «la guerra non è mai finita, noi stiamo ancora combattendo». Soli contro tutti, «noi serbi orfani, privi di protettori».

Come se nei villaggi del nord il tempo si fosse fermato al 1999 e nessuno si sia preoccupato di spostare le lancette. Ma non è nei villaggi, bensì nel capoluogo Mitrovica — divisa dal fiume Ibar come una mini-Berlino balcanica, il nord ai serbi, il sud agli albanesi — che si accentra la crisi. Anche qui, sul ponte, i serbi hanno ammassato la terra, e ogni notte aggiungono qualche cassonetto. A sud del fiume a controllarli i blindati della Kfor, e ora anche i cecchini tedeschi appostati sul tetto di un casermone. Fino a una settimana fa, da queste parti agivano solo i carabinieri. Ma ora anche loro non entrano in città . «Evitiamo provocazioni», dice il capitano Damiano Del Gigante.

Lo schema di questa abbozzata rivolta serba, dicono fonti militari, è semplice: organizzata dai sindaci, in filo diretto con Belgrado. Gestita, quando c’è da creare disordini, da affaristi-criminali, come Zvonko Veselinovic, che controllano il contrabbando: a menare le mani chiamano teppistelli ventenni (ricordate le altre guerre, gli ultras di Arkan?), che la sera girano incappucciati. Ma non è che non si cerchi, da parte serba, di uscire dell’angolo. Lo si capisce nell’ufficio del proconsole del governo di Belgrado, Oliver Ivanovic, nel quartiere multietnico di Little Bosnia, dove per giorni i negozi sono rimasti chiusi. Spiega pacato: «Vogliono umiliarci. Sanno che aspettiamo lo status del candidato Ue, e hanno forzato sui confini, pensando che non avremmo reagito. Ma c’è un limite a quello che siamo disposti a sacrificare per l’Europa». Accusa la Kfor e l’Ue: «Non sono neutrali, hanno portato loro a termine i piani albanesi. Pensate che Thaci abbia fatto tutto questo senza alzare il telefono?». Ossia, come aveva annunciato, «prendere il pieno controllo del proprio Stato», e la smettano i serbi di «sognare la partizione».

C’è quella scadenza, sullo sfondo dei disordini: 12 ottobre, sì o no alla candidatura della Serbia in Europa. E ci sono le parole della cancelliera Merkel, il 23 agosto a Belgrado: se volete l’Ue, «smantellate le strutture parallele» in Kosovo. Quel sistema fatto di scuole, ospedali, pensioni, polizia finanziato da Belgrado, perché al di là  dell’Ibar — dove dai bancomat escono dinari — il Kosovo anche dopo il 1999 non ha mai smesso di essere Serbia. E invece, l’ultima richiesta al presidente serbo Boris Tadic, ora che Mladic è catturato, è questa: rinuncia al Kosovo per l’Europa.

«Politica, serve una soluzione politica», ripetono tutti, serbi e albanesi, e anche i militari che vogliono solo tenersi lontani dagli scontri. Restano i cecchini tedeschi sul tetto a tenere nel mirino il ponte sull’Ibar, dove comunque di notte non passerà  nessuno.


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