Ritratto dell’uomo che non era il Colonnello

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Nessuno le aveva mai viste, e come le orme di uomo sulla sabbia del deserto anche questo album privato di Muhammar Gheddafi in famiglia sarebbe stato cancellato dalla “Tempesta” scatenata per deporlo. Le ha trovate per caso – come per caso tante immagini vengono strappate al vento della Storia dalla curiosità  di un fotografo o di un giornalista – Tyler Hicks, un fotoreporter del New York Times che annusava tra le rovine di uno dei rifugi del Colonnello demoliti dalle bombe della Nato e saccheggiati da uomini che portavano via materassi sporchi, cappelli, panni e rottami di mobilia. Sono “l’altra faccia del mostro” ufficialmente bollato e ricercato per crimini contro l’umanità , il rovescio umano di quell’icona grottesca, buffonesca, feroce e insieme ridicola che questo dittatore divenuto, anche per propria scelta, la caricatura di se stesso, aveva creato per il consumo dei libici e dei suoi untuosi adulatori nel mondo. Eccolo che palleggia su uno stento praticello che sembra periferia della Milano anni Cinquanta, ancora giovane, in camicia e jeans, con i figli, probabilmente con quel Saadi che decenni più tardi sarebbe riuscito a comperarsi un pezzetto di illusione calcistica in Italia versando soldi alla Juve e sfruttando le smanie del presidente del Perugia Gaucci.
Senza il burnus, il mantello con cappuccio che diventerà  il suo brand alternato alle uniformi militari da operetta grondanti di fronde, botte, nastrini di campagne mai fatte o vinte, ma con un placido cammello che bruca l’erba di primavera punteggiata di fiori gialli, il padre della Jamahiriya, della repubblica libica, torna a essere soltanto il padre di due ragazzini e il capo famiglia che li porta a passeggio, vestito con una felpa rossa da turista su calzoni bianchi. E le divise da generalissimo immaginario ridiventano il semplice kaki molto britannico da tenente, quale era uscito dall’accademia dopo quattro mesi di addestramento anche in Inghilterra, che guarda il Mediterraneo e un porto terminale del petrolio accanto a uno dei suoi innumerevoli figli, in una foto che deve risalire agli anni Sessanta, prima del colpo di stato e della sua ascesa al trono. Forse uno dei suoi tanti figli uccisi sotto le bombe.
Identificare chi sono quegli uomini e quelle donne ritratti nel mucchio di istantanee sparpagliate fra i detriti di Bab al-Aziziya, il principale dei suoi rifugi privatissimi, a sud di Tripoli, è difficile, a volte impossibile, perché la feroce privacy che circondava la famiglia, il “cerchio magico” di mogli e figli di Gheddafi, aveva sempre impedito che la gente li vedesse. Neppure i capi ribelli, spesso uomini del vecchio regime prontamente passati dall’altra parte della barricata, sono riusciti a indicare i nomi, a riconoscerli, racconta il fotoreporter che aveva mostrato a loro l’album di famiglia.
Si vedono chiaramente, in una foto presa da un dilettante, forse da lui stesso, crudamente illuminata da un flash amatoriale, la seconda moglie Safiya Farkash, la figlia Aisha grondante orecchini e gioielli sopra un abito con grandi spalle a sbuffo e il figlio Saif al-Islam, in giubbotto di pelle da bullo camorrista, ripresi con una testa di leone alle spalle. Conforta sapere che quelle due donne sono da tempo in salvo in Algeria, dove Aisha – l’unica figlia femmina – ha partorito un bambino il mese scorso. La figlia adottiva, Hana, fu data per morta sotto le bombe del raid ordinato da Reagan nel 1986, ma nessuno lo confermò mai. Secondo la stampa tedesca, Hana è viva e adulta, e vive in Germania.
La dimensione politica e propagandistica creata da lui e ben volentieri adottata dai suoi nemici per giustificare l’attacco si scompone nelle tessere di un mosaico famigliare che quasi imbarazza osservare. Ecco Safiya, la moglie, che guarda e consola orgogliosa e sorridente un neonato Saif al-Arab dopo la dolorosa ma inevitabile cerimonia musulmana della circoncisione. A quel neonato, vent’anni più tardi, il padre avrebbe affidato la repressione della prima rivolta contro il regime, a Bengasi, con risultati disastrosi. Ed è lo stesso neonato, stretto nelle fasce che un tempo stringevano tutti i piccoli, a essere esibito dal padre sorridente, in tuta Adidas sotto un cappellino bianco da golfista americano in Florida. Era il 1982, un’altra era. Sei anni dopo avere sorretto quel neonato con giusto compiacimento, il padre, l’uomo in tuta sportiva e cappellino da golfista, avrebbe ordinato l’attacco al Jumbo della Pan Am precipitato a Lockerbie, uccidendo 270 persone innocenti quanto quel bambino.
Eppure diventa impossibile voler male – non avendo mai assaggiato la frusta e le torture del regime libico – all’uomo che ci guarda da foto che nessuno, oltre il cerchio della famiglia, avrebbe mai dovuto vedere. Può essere il giovane uomo chiuso in un trench coat, in un impermeabilino grigio da impiegato di concetto, che accarezza affettuosamente uno dei suoi bambini riccioluti lo stesso che la Corte internazionale sta ricercando appunto per crimini contro l’umanità ? Queste non sono le immagini private di Adolf Hitler, colto nella sua stupenda residenza bavarese di Berchtesgaden mentre gioca con la cagna Blondi o mentre la favorita Eva Braun – quella che morirà  suicida con lui nel bunker – sorride civetta all’obbiettivo, che ci rimandano brividi di una normalità  inquietante.
Il Gheddafi dell’album privato sottratto alle rovine è realmente un uomo qualunque sotto gli orpelli dei costumi di scena, anche accanto ad altri capi di stato (c’è anche Mubarak) o grandi personalità  come Nelson Mandela, nei giorni dell’adulazione, quando il suo petrolio e i suoi dollari ingolosivano tutti. È il fatto che lui, e i suoi sicofanti, le tenessero accuratamente nascoste, che non fossero mai state destinate al consumo pubblico pur nella loro umana innocenza, a darcene la dimensione sinistra. Perché un uomo che si vergogna di mostrarsi in pubblico come padre che gioca a pallone coi figli, come marito qualsiasi, come suocero a una cerimonia, già  tradisce il sospetto che non sia un uomo.


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